Caro direttore,
il neoministro Francesco Boccia, a margine della decisione del Governo di impugnare la legge del Friuli sull’immigrazione, ha commentato che “in materia di sanità, istruzione, infrastrutture le Regioni non possono decidere autonomamente e regolarsi come vogliono”. Ha poi aggiunto, si legge su qualche organo di stampa, che incontrerà tutti i presidenti di Regione, a partire da Zaia e Fontana, e poi si tireranno le somme nella “sede più opportuna”, la Conferenza Stato-Regioni.



Ricomincia il paese delle conferenze, del sentire tutti, del tirare le somme. Si può scommettere che anche la retorica delle Regioni di seria A e quelle di serie B sarà una linea guida fondamentale. Eppure, nell’ambito di un disegno che volesse davvero recuperare il gap drammatico di una pubblica amministrazione che non funziona, e che non spinge il paese ma lo ostacola, quello del modello di regionalismo sarebbe un tema fondamentale. Le riforme sciagurate (e dalla matrice ancora non del tutto chiara) di Renzi, così come oggi il proclama epocale della riduzione del numero dei parlamentari, non devono indurci a dimenticare il tema del regionalismo. Perché è su questo che si intrecciano i temi della spesa pubblica (in Italia il 49% abbondante del Pil), dei centri di spesa, dell’efficienza stessa di ampie fette dell’attività amministrativa.



Perciò le dichiarazioni di Boccia sono sconfortanti. Perché non c’è proprio nessun punto da fare. E perché il “luogo opportuno” non è quello che dice lui, ma il Parlamento. E lì che si dovrebbe consumare il dibattito e l’analisi e il voto su una riforma. Che dovrebbe contenere l’abolizione degli statuti speciali delle Regioni che ce l’hanno ancora, in base a ragioni storiche oggi prive di senso ed insieme l’approvazione del modello di riforma voluto in particolare dai presidenti delle Regioni trainanti (ma non solo loro). Gli statuti speciali oggi sono un’anomalia e un privilegio che determinano, nel caso delle Regioni trainanti (le piccole del Nord) condizioni di favore e quindi di sperequazione ingiustificabili, a danno delle altre. Mentre nel caso delle isole, specialmente la Sicilia, lo statuto speciale protegge poteri, corporazioni burocratiche, clientelismo, degenerazione politica, emorragia di risorse.



E pensare che sarebbe anche un colpo di genio politico accontentare proprio ora gli ex secessionisti, ex separatisti, ex autonomisti, con una riforma che non ha nulla di pericoloso e sui cui, con adeguato meccanismo perequativo, si può persino rilanciare. E nello stesso tempo recuperare risorse, reputazione, efficienza con l’abolizione degli statuti speciali. Fra l’altro le Regioni a statuto speciale non hanno la forza per boicottare la legge di riforma costituzionale che ci vorrebbe per eliminare il loro aureo privilegio. Il paese è già diviso in seria A, serie B, serie C, in tutti i campi; scuole, ospedali, servizi alle imprese. Lasciar fare meglio chi è più bravo non ha nulla di ingiusto. Piuttosto Boccia torni ad aprire i cantieri dei centri di spesa, del costo storico-costo standard e di tutte quelle cose di cui non sentiamo più parlare e da cui, ci dicono ampi e credibili studi e ricerche, deriverebbero risparmi a suon di miliardi e miliardi per anno. Oltretutto se tocchiamo la Costituzione per i parlamentari e per le Regioni, si potrebbero riprendere anche le fila del Cnel e di altri accorgimenti che proponeva il senatore di Rignano sull’Arno.

Ma nulla di tutto questo all’orizzonte. Soprattutto perché il Pd non ha fatto un metro in direzione di una qualche fisionomia di partito riformista adatto ai tempi, e resta un baluardo roccioso a difesa della conservazione, figlio dei comunisti stanchi e dei cattolici che hanno perso l’eclettismo.