Caro direttore, ho deciso di prendermi del tempo per mettere su “carta” una parte dei pensieri che continuano ad affiorarmi, ad aggiungersi e a mescolarsi nella testa in ogni momento della giornata, compreso il tragitto casa-lavoro. Nell’arco di quei 7 minuti che separano l’ospedale dal mio nuovo alloggio – un bilocale affittato nei pressi della clinica presso la quale lavoro – cerco di focalizzarmi sugli avvenimenti della giornata appena trascorsa per rimettere al proprio posto i nuovi tasselli che si sono creati, sempre che si trovi una collocazione nella quale inserirli. Faccio questo esercizio per cercare di farmi chiarezza, cominciare a mettere ordine nel mio “mondo interiore” che in questi giorni, più che in altri, si interroga e cerca di dare una parvenza di giudizio sulle cose.
Risale a 12 giorni fa il primo caso di Coronavirus positivo nel reparto nel quale lavoro, dopo che altri hanno fatto i tamponi, ma da sospetti, fortunatamente, sono risultati negativi. E di molti altri aspettiamo ancora l’esito.
A partire da fine dicembre ho seguito, e seguo, quotidianamente il diffondersi della malattia. Tutto d’un tratto il dashboard della John Hopkins University con il conteggio dei nuovi casi, l’aggiornamento dei ricoverati e dei morti ha fatto irruzione nella mia vita, è diventato il macabro compagno della mia esistenza. Come in una partita di Risiko il “virus cinese” ha invaso dapprima l’Italia, la Corea del Sud, la Thailandia per poi contagiare tutto il mondo. Mietendo continuamente vittime. E ora dopo ora i puntini si allargavano a macchia d’olio. Tutto d’un tratto è come se il mondo fosse diventato un esile corpo di un bambino infettato dal morbillo. Ma purtroppo di morbillo non si tratta.
L’abbiamo sempre saputo, ma come meccanismo di difesa abbiamo voluto trincerarci dietro l’illusorio pensiero “tanto da noi non arriva”. È stato come voler erigere un muro di sabbia per proteggersi da una bomba a idrogeno. Siamo sempre stati consapevoli che non avrebbe minimamente resistito, ma abbiamo comunque voluto costruirlo. Il muro è stato abbattuto molto più velocemente del previsto e in breve tempo anche in Ticino, in Svizzera, il virus ha sfondato le frontiere. Ed è arrivato nel mio reparto. È entrato in una stanza adibita appositamente per lui. Ad attenderlo non un tappeto rosso, dei fiori e dello champagne. Ma un solo letto. Un tavolino. Una sedia. E una finestra.
Il virus è entrato su due gambe affaticate dal peso dell’esistenza, su un corpo stremato e martoriato da svariate patologie e un volto senza espressione. Entro per primo in quella camera e so già che da quel momento non vedrò più le cose con gli stessi occhi con i quali le vedevo fino a un istante prima. Tutto a un tratto le foto delle terapie intensive al collasso, i volti dei medici e degli infermieri provati da turni massacranti e le hollywoodiane immagini del virus con le quali ci hanno bombardato i mass media in questi mesi, vengono spazzate via con un colpo di spugna. La testa viene liberata da un fardello che da giorni era diventato insostenibile da portare. La mente viene ripulita di tutto ciò e piombo in uno stato di calma e pace totale. Ritrovo la mia lucidità, la mia concentrazione. Ci siamo preparati per mesi interi per questo evento e ora eccoci al punto zero. Al paziente zero. L’ignoto ci spaventa, ma al tempo stesso ci affascina. Genera domande e stupore. Vogliamo sondare quello che non sappiamo. Ma più di ogni altra cosa vogliamo dargli un volto e un nome.
Il paziente si trova sul letto, in posizione supina, sopra le lenzuola. Per scaramanzia o per chissà quale timore i miei occhi da infermiere clinico percorrono l’intero corpo non dalla testa ai piedi, come ho fatto sempre nei miei anni di lavoro, ma scannerizzano il paziente al contrario. Prima le gambe, poi il bacino, poi il tronco, poi il collo e infine lo sguardo si posa sulla bocca, sul naso. Sugli occhi. Eccoti finalmente Coronavirus. Siamo io e te. Faccia a faccia. Ora hai un volto, ora hai un nome. “Benvenuto maledetto” ripeto dentro di me.
Dopo un’ora e venti minuti di permanenza in camera d’isolamento tolgo la visiera, i guanti e la mascherina. Mi svesto dell’ingombrante camice impermeabile color azzurro cielo. Consapevole che attaccati a quel camice ora inanimato, gettato nei rifiuti a rischio biologico, sono rimasti dubbi, perplessità, angosce. Sono sudato, affaticato, ma finalmente rilassato.
Lo sguardo che ho sui miei colleghi, sulla mia capa e il mio responsabile con i quali lavoriamo da settimane incessantemente e a stretto contatto è cambiato, è diventato più intenso, si è amplificato. Per esperienza personale ho sempre ritenuto i momenti di crisi, di fatica, di drammaticità delle occasioni. Quella che ci viene offerta in questi giorni è una sfida, un’opportunità. E non lo dico perché sono ottimista, ma perché sono certo che nulla succede per caso. O meglio: tutto accade per una ragione. L’uomo moderno ha forse perso in parte il significato dell’attesa. In una società dove tutto deve avvenire nell’ora e nell’immediato e al quale dobbiamo dare una spiegazione, almeno per noi stessi, quello che non riusciamo ad avere subito, lo releghiamo in un angusto angolo della nostra mente. Abbiamo l’occasione di lasciare in sospeso quello che in parte non comprendiamo, che non capiamo, ma che accade per una ragione, altra da noi. Accade per una grazia. La grazia di una nuova coscienza. E la grazia, ora in parte incomprensibile ci verrà svelata. Non è evidente fin da subito, ma parafrasando un celebre genio e inventore della nostra epoca, “accadrà un giorno nel quale ci guarderemo indietro e tutti quei puntini che apparentemente erano insignificanti, si connetteranno e acquisiranno un senso”.
Leggo e ascolto tante persone che affermano che stiamo riscoprendo la bellezza delle piccole cose. Ma se scaviamo in profondità e andiamo fino in fondo agli avvenimenti di questi giorni, ci accorgiamo che la nostra vita è costellata dal superfluo, dal di più. Stiamo facendo esperienza degli affetti dei familiari, dei parenti, dei vicini di casa, dei nostri figli, delle nostre mogli, dei nostri colleghi. Dei pilastri che reggono la nostra esistenza. L’essenziale diventa d’un tratto visibile ai nostri occhi.
Siamo messi di fronte allo stupore della vita. Ci stiamo educando. Se andiamo a vedere l’etimologia della parola scopriamo che arriva dal latino e-ducere, condurre fuori. Stiamo uscendo dalla nostra bolla, dalla nostra zona di comfort abituale. Tutto questo, per alcuni, restando “semplicemente” a casa.
Se fino a qualche settimane fa alcuni di noi vivevano nella certezza personale che tutto dipendeva da noi stessi, mai come ora la realtà assume i contorni di una dipendenza da qualcosa d’altro. La nostra vita non dipende da noi. È stato sufficiente un microrganismo acellulare invisibile ai nostri occhi per scatenare una pandemia e imporci un periodo di arresto. Per alcuni di riflessione.
Non voglio addentrarmi negli aspetti moralistici e di propaganda dello slogan #andràtuttobene, ma vorrei solo aggiungere un’altra riflessione. Solo i miopi nei confronti della realtà o i negazionisti della vita possono credere che tutto andrà bene. La realtà non solo parla, in questi giorni urla. La storia ci insegna che dalle pandemie si esce, se ne viene fuori, non sono eterne. Se leggo l’hastag #andràtuttobene e lo riduco a questo significato ho la certezza che andrà così. Ma non per tutti. #andràtuttobene verrà cancellato alla prima pioggerella, perché la vita non va sempre bene, anche se ci speri. La debolezza e le fragilità hanno il sopravvento. Non #andràtuttobene per i pazienti infettati, per i familiari che in punto di morte non possono assistere i loro cari in questo tragico momento. Non #andràtuttobene per infermieri e medici che si ammaleranno e correranno a casa delle loro famiglie per vivere in isolamento in una cella di pochi metri quadrati. Ma stiamo prendendo coscienza che tutto questo è per ognuno di noi e che nulla è dato per scontato. E questo grazie all’esperienza.
Dopo la tempesta c’è sempre la quiete. Ma nella quiete dobbiamo far memoria della tempesta.