Caro direttore,
inizialmente sottovalutato un po’ da tutti – anche da chi scrive – il virus CoVid-19 sta già cambiando le nostre vite e ha già avuto vicissitudini alterne. Dopo il primo clamore, che ha fatto sobbalzare il Nord Italia nel fine settimana dei supermercati presi d’assalto, è seguito un periodo – terminato col decreto di domenica notte – di spot ancora più dannosi, con improbabili hashtag che raccontavano il pressappochismo con il quale ci siamo abituati a trattare tutto, pensando che ciò che ci capita, addirittura il lavoro, l’amore o la salute, sia soltanto un fenomeno di passaggio e non un avvenimento.



È in questa sottolineatura che, a mio giudizio, muove i suoi passi la grande sfida che abbiamo dinnanzi: quello che sta succedendo in questi giorni non è un fatto provvisorio, un disturbo dell’umore collettivo legato a qualcosa cui si sta dando troppo o troppo poco peso a seconda dei weekend, ma un avvenimento, qualcosa che definisce senza mezzi termini un prima e un dopo.



Il primo passo che la libertà di ciascuno deve compiere è, dunque, anzitutto quello di riconoscerlo come tale. Ovviamente, come ogni avvenimento, la seconda tappa è rappresentata dalla questione della fiducia: quando qualcosa accade, qualcosa di dirompente come l’amore per una donna o un uomo, un dolore o un lutto, una perdita o una malattia, di qualcosa bisogna pur fidarsi. Benedetto XVI soleva ripetere che ciò che è venuto a mancare all’uomo occidentale in questo inizio di millennio non è tanto la fede come accordo dell’intelletto ad una verità religiosa, quanto la fede come virtù sociale, al punto che l’enciclica che simboleggia il passaggio di pontificato tra Ratzinger e Bergoglio porta proprio il nome di “Lumen Fidei”.



La crisi della fede è la crisi della nostra capacità di avere fiducia in qualcuno, qualcuno che – diceva il Servo di Dio don Giussani – s’impone. In una vicenda epidemiologica ciò che s’impone come autorevole è la medicina: è dai medici che ci aspettiamo che la politica, l’economia, la società, prendano consigli per il bene comune perché è medica la natura di quel che sta succedendo. Quello che sta accadendo in questi giorni è un fatto sanitario ed è ai medici che dobbiamo guardare con simpatia e disponibilità. Dico questo perché mi pare che questi giorni, su cui tanto è già stato detto e su cui più avanti si potrà offrire una completa sintesi, mostrino in nuce due subordinate non da poco: da un lato assistiamo di fatto alla resa dei conti fra un’economia non pensata per l’uomo e l’uomo. Per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino l’occidente si trova a dover scegliere tra la salvaguardia del proprio sistema economico, finanziario e produttivo, e la sopravvivenza concreta delle persone.

Certamente non è questo il primo momento in cui questo conflitto è emerso, ma nel passato – da quello più remoto del 2008 a quello più recente dell’Ilva o della Terra dei Fuochi – c’era sempre qualche abbaglio ideologico che ci impediva di vedere quale fosse la posta in gioco. Oggi questo non c’è più: è chiaro che chiudere la Lombardia, chiudere il Nord o un’altra parte dell’Italia, significa apertamente condannare economicamente la regione che si chiude, ma è altresì chiaro che un’economia che fallisce quando si ferma per salvare vite umane, è un’economia che è già fallita perché è contro l’umano, contro il motivo per cui è nata: il bene di tutti. Il coronavirus è una bocciatura senza appello al modo con cui abbiamo organizzato i rapporti economici e produttivi in questi due secoli, è il prodromo più significativo all’incontro che il Papa voleva dedicare – proprio a marzo – all’economia sostenibile e che, quando si terrà a novembre, troverà nei fatti di questi giorni un’impressionante documentazione della strada su cui lavorare e muoversi.

Infine c’è un’altra subordinata che comincia a intravedersi tra i fili confusi di queste settimane: si è fatta strada tra alcuni credenti la tentazione di non affidarsi alla medicina e alle decisioni della comunità per capire come muoversi, ma alla “fede”. Ora, è chiaro che con le stesse zucchine si può fare il minestrone o il risotto, ma la fede di cui si parla in questo caso non ha nulla a che vedere con l’imponente fenomeno della ragione che si è fatto largo nel mondo occidentale a partire dai primi secoli dell’era volgare: la fede cui tanti vorrebbero aggrapparsi in queste circostanze somiglia più a quella forma di magia che rende Dio il più potente fra gli stregoni. La benevolenza di Dio, che esiste, e i miracoli di Dio, che esistono, non sono frutto di riti o formule, bensì di un’intelligenza docile che obbedisce alla realtà fino alla mendicanza. L’uomo cura, ma è Dio che guarisce: rivolgersi semplicemente a Dio, senza curarsi di ciò che la comunità civile ci indica – e anzi trattare le indicazioni che ci sono date con sufficienza perché “tanto se ci vediamo per celebrare non può succederci nulla” – non solo è senza ragioni, ma produrrà effetti miopi devastanti che oggi non si possono neppure immaginare. Del resto, ci provi uno studente a chiedere a Dio di prendere “dieci” senza aver studiato nemmeno una pagina, ci provi un malato a chiedere a Dio di guarire senza aver seguito neppure il consiglio di un medico: Dio non è un’altra cosa rispetto alla realtà, Dio non è un druido, Dio è ciò che rende la realtà stessa strada di guarigione. E se è vero che il nostro mondo è malato ed è lontano da Dio, come è vero, allora sarà solo la nostra serietà nell’abitare il presente per quello che è che ci permetterà di avere uno sguardo puro e libero per riconoscere i miracoli che Egli vorrà compiere. La vita non è roba nostra.

Alla fine di questi mesi sarà proprio dalla nostra voglia di vivere e di implicarci con il Mistero che ripartirà l’economia, così come – alla fine di ogni giornata – è il nostro desiderio di vita, e di dire di sì alla provocazione di un Altro che ci sfida, a fare di quella giornata un tempo vissuto e non un tempo perso. Sarà la nostra penitenza quaresimale, la nostra apertura ad accogliere con serietà, sobrietà e umiltà ogni indicazione sanitaria e civile che ci sarà data a rendere il flagello del virus – che sta seminando morte e distruzione nel mondo – l’inizio di qualcosa di nuovo, la strada per poter ripartire, tornare a casa da noi stessi, e scoprirsi in fondo cambiati, più sinceri, più lieti, più liberi, più pronti a sacrificarci e a metterci in discussione. Voltandoci indietro e guardando a questi giorni di rinunce e di lacrime come a giorni di una Grazia straordinaria e sconosciuta, come al tempo propizio per la nostra conversione.