Per quattordici natali ho trascorso il mio Natale con il suono delle campane che mi rimbombava nelle orecchie. Erano campane che suonavano a festa, era l’avviso del giorno di Natale, mi richiamavano l’immagine di famiglie unite, delle tavole vestite di festa.

Rinchiuso nella cella, come un leone senza più la voglia di ruggire, ripensavo alla mia terra: le oasi, i beduini, il tè berbero da preparare ai turisti che, nel giorno del Natale, si risvegliano nella magia di un’oasi, con i cammelli a fare loro da taxi. In carcere il calendario non ha giorni pesanti come quello del Natale: la notte di Natale tutto crolla, c’è il silenzio di un cimitero, la lentezza dell’elefante. In questa notte non c’è crudeltà, c’è impotenza, nostalgia, disperazione, sconforto: esiste la memoria dei Natali passati nelle proprie case, nelle proprie tende, nella propria terra.



È vero: c’è la messa anche in carcere, anche qui il Gesù Bambino nasce, «anche per chi ha sbagliato – come dice il nostro cappellano – Gesù nasce: per insegnarci come si fa a rinascere dopo che siamo morti». Il vangelo della notte di Natale è bellissimo, però le sbarre lo induriscono. È difficile, a Natale, non ricordare che tutti siamo stati bambini.



Il primo Natale che ho trascorso in carcere, rivedevo mia figlia dappertutto: rivedevo sua madre, lei, noi tre. Le rivedevo soltanto in sogno, perché la realtà l’ho cancellata io, rovinandola nella maniera più barbara che esista: son rimasto solo al mondo. In questi giorni ho rivisto alla televisione immagini che mi hanno riaperto la ferita: il volto di Giulia, quello di Filippo, quello di Vanessa, quello di Bujan. Sento esplodere una rabbia fortissima, difficile da controllare, sono sul punto di scoppiare. Poi, da qualche parte, mi arriva una voce: “Perché ti arrabbi così? E tu: ricordi?”. Basta questa domanda per mettermi a tacere, per mettermi nel letto, tirarmi su il piumone fin sopra i capelli e pregare il cielo che il giorno di Natale possa finire il più presto possibile.



Un giorno, durante una testimonianza, un mio amico ha raccontato alla gente venuta in carcere che lui, nel giorno di Natale, parlava con il muro della sua cella: lo chiamava “il muro del pianto”. Non solo lui: anch’io ho raccontato tante cose il giorno di Natale al muro della cella. E lui mi ha risvegliato tante persone, tante immagini, tanti ricordi. Sono anni, da quando ho commesso quello che ho commesso, che il Natale è una specie di giornata della memoria. Lo aspetto con ansia, ma quando io sento avvicinarsi il Natale inizio a provare strane sensazioni: di morte, di nostalgia, di rimpianti.

Anche quest’anno ero già preparato a parlare ventiquattr’ore con il muro il giorno di Natale. Invece: “Firma qui – mi dice un angelo di passaggio -: il giorno di Natale ti aspettiamo a casa. Chiediamo il permesso, coraggio!” È stato così all’improvviso, che non ho capito bene cosa significasse: ho soltanto firmato, mi sono fidato. Sono giorni che penso a come sarà questo prossimo Natale, il mio primo Natale dopo quella doppia morte che mi sono lasciato alla spalle. Non so più come ci si siede a tavola, cosa significa sentirsi dire Buon Natale senza una grata davanti, cosa vuol dire rivedere un albero di Natale, sentire le musiche del Natale.

L’altro giorno, parlando con un mio amico in cella, gli ho detto che avrei voluto portare anch’io un pensierino da mettere sotto l’albero appena entrato in casa, poi regalarlo alla gente che mi accoglie. Lui mi ha detto: “Non conta cosa c’è sotto l’albero, ma chi è seduto intorno”. Ha ragione. Ho saputo che in questa casa ci sono bambini piccoli: non so se avrò il coraggio di prenderli in braccio e stringerli forte. Mi lasceranno, sarò capace, cosa proverò: si fideranno? Non ho mai cercato scuse al male: pagherò tutto, fino all’ultimo. Non immaginavo, però, che in una famiglia del mondo, a Natale, ci fosse un posto preparato anche per me. Pensavo non ci fosse più posto per me al mondo. Invece è Natale davvero.

(riflessione di un detenuto del carcere Due Palazzi di Padova)

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