Rinchiuso in cella, sento dalla televisione dell’omicidio di Willy. Vedo volti, rabbia, lacrime: anch’io sono in carcere per un omicidio. Dunque ci penso di più profondo a ricreare la scena: un sabato sera come tanti, un pub, un complimento di troppo, una rissa. Molti dubbi, un’unica certezza: Willy, un giovane ragazzo, è morto. Conosco molto bene quelle situazioni nelle quali a fare da padrone è l’insicurezza in noi stessi e la paura di apparire deboli agli occhi degli altri: dobbiamo dimostrarci più forti, duri, senza accorgerci che siamo soltanto stupidi. Immagino gli insulti che volano, una rabbia feroce che acceca: rabbia repressa, nascosta chissà dove, una rabbia che scalpita per uscire. Basta un movimento improvviso e parte la mattanza. Il tempo di capirci qualcosa e un ragazzo è già lì, esanime, a terra, nel suo stesso sangue. Chi grida, chi piange, chi scappa.
Dopo poco ci sono quattro madri, quattro cuori, che d’improvviso smettono di battere. Una di quelle madri dovrà riconoscere il proprio figlio in un obitorio freddo e spoglio; le altre tre passeranno la notte in un commissariato di Polizia, nella speranza che si tratti di un grosso malinteso. Poi, velocemente, la notte che diventa alba, la speranza si infrange e lascia il posto alla più amara delle delusioni: i loro figli vengono arrestati. Sento di provare un immenso dispiacere per quel ragazzo e per la sua famiglia, ma, essendo stato anch’io un carnefice, provo ancora più dispiacere per i suoi carnefici. Un dispiacere per quello che dovranno affrontare: non parlo della condanna da scontare nei confronti della giustizia e, forse, al cospetto di Dio. Parlo di una condanna molto più pesante: quella da scontare nei confronti di loro stessi. Pensare, ripensare sempre al loro folle gesto, al dolore arrecato. Realizzare che una parte di loro stessi è morta per sempre con la morte di quel ragazzo. Il pensiero di una madre che piangerà il proprio figlio davanti a una lapide; il pensiero di tre madri che, attorno a un tavolo di una sala colloqui di un carcere, andranno a trovare i loro figli, guardate a vista dagli agenti, pronti a interrompere un abbraccio o una carezza.
Togliere una vita è fin troppo facile, a volte è questione di secondi: quello che è realmente difficile è provare a ricostruire la propria vita dopo che, senza alcun diritto, l’abbiamo tolta ad altri. Oggi, dopo dodici anni di carcere, notizie come questa tornano a far sanguinare ferite che non si non ancora cicatrizzate, ferite che probabilmente rimarranno aperte in eterno. Rivedo me stesso in quei ragazzi: il bisogno assurdo di mostrarsi per quello che vorremmo essere e non per quello che siamo, dannatamente attenti a ostentare l’apparenza senza accorgerci dell’enorme vuoto che abbiamo dentro. Vuoto che, adagio, ci divora.
La realtà cruenta è che Willy non c’è più ma quei ragazzi, anche se al momento si sono smarriti, ci sono ancora. Se ho imparato qualcosa durante questa mia prigionia è che niente, nessuno è mai del tutto perso in partenza. Se rifletteranno a fondo su loro stessi, sul gesto compiuto, sui motivi che li hanno portati a spingersi così oltre, potranno forse rialzarsi. Non ci riusciranno, però, da soli: serviranno le istituzioni, un carcere serio, una rieducazione su misura. Son convinto che se il carcere tenterà di ammorbidire il cuore di questi ragazzi, senza spezzarne l’anima, per loro non sarà troppo tardi. Diversamente, Willy non rimarrà l’unica vittima di quel sabato sera. Mi pare l’abbia detto Aristotele che educare la mente senza educare il cuore significa non educare affatto.
Quando sono entrato in carcere io ero considerato una causa persa in partenza, ero etichettato come “irrecuperabile”, uno di quelli da chiudere in cella e buttare via la chiave. Durante il tragitto di questi anni ho incontrato gente che ha avuto il coraggio di puntare su di me, donandomi subito fiducia: oggi è sotto i miei occhi il cambiamento che sta avvenendo in me. Sono un ragazzo diverso, mutato. Da dentro la mia cella spero, e per questo anche prego, che la stessa opportunità data a me venga data anche a loro, in modo da non rendere vana la morte di Willy. Convinto, poi, che l’opportunità, da sola, non basta: occorre accettarla e decidersi di giocarla. Rimettendosi in gioco.
Jacopo Merani, Casa di Reclusione “Due Palazzi” (Padova)