Caro direttore,
le scrivo perché trovo che sulla maturità si faccia troppa poesia. Sono commissario esterno di italiano in un liceo e non metto in dubbio, come scrivono alcuni autorevoli commentatori, che l’esame di Stato sia una splendida occasione per restare colpiti dal cammino umano di tanti ragazzi che – secondo la simbologia dei riti di passaggio – iniziano giugno in un modo e finiscono luglio in un altro, a volte completamente cambiati. Però mi si conceda di dire che se questi miracoli del cielo, che sono i nostri ragazzi, sapessero anche un po’ di italiano non sarebbe così terribile.
Il punto è che noi chiediamo loro di argomentare su alcune tematiche nella prova scritta, ma questi non sanno scrivere. Usano malissimo il corsivo, non mettono insieme argomentazioni degne di nota (vorrei che lei potesse vedere quali e quanti luoghi comuni infarciscono i temi), sono incapaci di formulare frasi sintatticamente efficaci o periodi che abbiano il minimo cenno di una costruzione retorica.
Chiaramente questo non vale per tutte le scuole del Regno: sono certo che i vessilli dei difensori del buon nome si levino senza tregua per raccontare di questo o di quel ragazzo davvero speciale. Eppure, il compito della scuola è un altro. Arrivati a 19 anni dovrebbero essere assodate le cosiddette competenze di base: scrivere, leggere e comprendere un testo, orientarsi nello spazio e nel tempo, fare di conto e formalizzare problemi, esprimersi in una lingua straniera. Se facessimo un esame dando una prova di storia con dieci nomi da mettere in ordine cronologico, lei potrebbe assistere a cose meravigliose cui io stesso ho assistito in questi anni. Forse non sa che i Vandali sono un gruppo di barbari che agisce di notte o che Gesù Cristo diffuse il cristianesimo soppiantando l’astrologia, magari le sfugge che Martin Luther King non solo fu l’autore della riforma protestante, ma segnò con forza l’Italia dopo la caduta dell’Impero Romano. Le risparmio quanto accadde a Mussolini o dove si trova l’isola di Sant’Elena, mentre non posso non condividere con lei il fatto che il Giappone confina con gli Stati Uniti e che il Brasile è stato spostato in Africa.
A questi ragazzi noi chiediamo di argomentare su Moravia o su Quasimodo, a questi noi insegniamo due concetti che sono sempre quelli e che non vogliono dire nulla (provi a chiedere in giro quanti pessimismi ha Leopardi o la distinzione della produzione pirandelliana: tutti risponderanno allo stesso modo). L’egemonia culturale della sinistra nelle scuole ha reso, paradossalmente, il sapere un genere di consumo al punto tale che, per istruire tutti, arriviamo a non insegnare più niente a nessuno.
E non parlo di quei poveri docenti che ci mettono ancora un po’ di passione: parlo di chi non vuol fare la maturità per andarsene in ferie prima o di chi con una laurea in mano pretende di sapere insegnare. Le dirò una cosa, che poi è il motivo per cui le scrivo in forma pseudoepigrafa: lei lo sa, vero, che un docente delle superiori – che non ha la maturità – da metà giugno a metà luglio, quando va in ferie, non fa niente? E che, se fa la maturità, lo pagano? E che, se fa i corsi di recupero, lo pagano di più? Cioè: io ti do il tuo stipendio per completare i verbali e fare qualche riunione, poi – se fai altre cose – ti pago ancora.
È vero che gli stipendi dei docenti sono da fame, ma è questo un modo etico di sanare la situazione? Pagare uno che è già pagato per stare a casa e non far niente? E non mi scrivano, adesso, i soliti vicepresidi o funzioni strumentali… è chiaro che quelli sono degli schiavi retribuiti, ma gli altri? Che cosa insegna una scuola del genere?
Che cosa insegna una scuola i cui studenti, terminato l’orale, si lavano reciprocamente di spumante, sorseggiando gin tonic o suggellando il momento con una cannetta portata dall’amico del cuore? Che cosa insegnano i genitori che vanno a vedere gli orali come se all’orale ci fossero loro, con magliette, stelle filanti, vestito delle belle occasioni? E siamo sicuri che festeggino la conclusione di un ciclo e non il fatto di “essersi tolti da quella scuola”? O che cosa insegniamo ai ragazzi se i membri interni delle commissioni a volte controllano tutto, inviando messaggini agli studenti, foto di materiale riservato in anteprima, rivelando quanto accade in commissione ai ragazzi o – peggio – alle madri?
E lei lo sa che in tanti ritengono che la maturità vada bene se, più o meno, rispecchia le medie avute dagli studenti nello scrutinio finale? O che l’orale, che dovrebbe essere il momento in cui lo studente parla con tutti, dando prova di capacità critica, in molte scuole si fa ancora spostando la sedia di commissario in commissario per farsi interrogare come durante l’anno, mentre gli altri si fanno gli affari loro?
Vede, a me è spiaciuto scrivere questa lettera: c’è tanta brava gente a scuola, veramente tanta. Ma è il sistema che non funziona, è l’esame che non restituisce più ai ragazzi quello che meriterebbero e che appassiona moltissimi docenti in tutta la penisola: la percezione di un sapere che è più di un post-it, perché è l’inizio di una conoscenza vera. Di quelle che ti mettono a contatto col mistero della vita. Con buona pace di Martin Luther King.
(Un docente di scuola secondaria superiore)
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