Gentile dottoressa Armeni,
ho letto il suo articolo “I figli che non vogliamo” su Il Foglio del 17 maggio e ho detto: “Finalmente!”. Perché era l’ora che qualcuno uscisse dall’illogico piagnisteo trasecolato e diffuso di chi disegna le donne succubi delle condizioni ambientali, come se fare figli fosse solo un affare di soldi e le donne fossero debolucce e asociali. Lei l’ha chiarito bene.
Oltretutto, se fosse un affare di soldi i poveri non farebbero figli e i ricchi ne farebbero a iosa, mentre è esattamente il contrario. E basta col mantra che per risolvere i problemi femminili basta fare più asili nido che sono un rimedio peggio del male, per il trauma del figlio, della madre, per lo stress degli orari, per i rischi infettivi. Il punto che trae alla denatalità, lei spiega, è il nascere di un sano egoismo femminile che vuole soddisfare i desideri, soddisfarli come non è riuscito alle loro mamme e nonne. Ma con un’aura grigia nel finale del suo articolo: non appare chiaro per le giovani (e i giovani) di questa generazione cosa è davvero il desiderio, tanto da confonderlo con i progetti.
Mi permetto allora di partire dalla sua riflessione per allargare lo sguardo oltre l’emisfero femminile e dare un quadro della dialettica tra egoismo, desiderio e progetto. Oltretutto, questa dialettica non riguarda solo la procreazione, ma il mondo del lavoro in pieno, laddove gli ospedali e le scuole si trasformano in aziende, e assorbono gli errori di un cedere alla logica dei protocolli invece che alla logica della motivazione.
Come lei dice, i desideri si confondono con uno “spazio libero” per il quale occorre liberarsi dalla stessa condizione carnale e imperfetta; e le donne oggi “Hanno preteso una libertà maggiore di quella delle loro madri. Di sacrifici e dedizione non vogliono sentirne parlare”, ma “si ritirano in quel che il mondo permette senza accorgersi che anche la loro libertà è comunque limitata, di seconda mano. È solo quella che la società degli uomini è disposta ad accordare a una minoranza delle donne del pianeta” e, culmine della riflessione, incantevole, cita Sylviane Agacinski sul “desiderio di essere liberati dalla carne, dalla natura, dall’animalità, dalla vita e quindi anche dalla morte”. E Agancinski sottolinea il rischio per le donne “di identificarsi con questo soggetto maschile ed etereo e di rifiutare anch’esse la propria natura carnale” mentre cercano le coordinate del loro fondativo egoismo.
Volendo guardarlo in senso più ampio, potremmo dire che c’è un egoismo forte che segue i desideri, sapendo che i desideri sono qualcosa (esterno a noi, o anzi interno) di libero; e c’è un egoismo debole che crea i propri progetti secondo i condizionamenti ambientali inconsci. E i progetti ci cullano nella insidiosa fola che con essi tutto sia in ordine. Come nella novella La tana di Franz Kafka, dove un soggetto si crea un mondo suo proprio isolato e schermato sottoterra, per non avere imprevisti e visite inattese, ma ad un certo punto sente uno strano sibilo da un angolo della sua grotta e tutte le sue certezze crollano. In questa dialettica occorre che il desiderio non diventi isteria grazie al progetto e che il progetto non diventi ossessione grazie al desiderio. Oggi vediamo purtroppo uno sbilanciamento in favore del progetto tout court.
Questo sbilanciamento è una patologia sociale che colpisce uomini e donne, la cui condanna è la solitudine e la denatalità; e – come ogni sindrome ossessiva – rifiuta il desiderio, ogni forma di desiderio, di realizzazione, per ripiegarsi nell’esistere, nella ripetitività dei gesti, nella apparente purezza delle forme (boom di cosmetici e disinfettanti), quindi nel consumismo che sembra vendere (a buon mercato o caro, a seconda del target) tutto questo. Ripiegarsi nel progetto. Tutto disinfettato, tutto politically correct, tutto che ti faccia sentire “tra i buoni”, dalla parte giusta, tutto rasato, glabro, insapore, tutto a basso prezzo; tutto e solo tutto quello che già sai di volere.
Come scriveva Günther Anders, le persone nel XX secolo vivono in una paradossale invidia, quella delle macchine: gli uomini e le donne hanno visto nella tecnologia qualcosa ottimamente freddo, senza macchie o difetti, senza sentimenti da frenare e nascondere, e hanno iniziato invidiare le macchine e “rinnegare la loro precedente vita organica”. Scrive: “Oggi non è il corpo svestito ad essere considerato nudo, bensì quello non lavorato, quel corpo che non contiene elementi di cose né indizi di una riduzione a cosa”.
Tutto questo è una patologia amplificata e moltiplicata dai modelli televisivi, laddove non si presenta mai un soggetto con difetti, laddove i difetti vanno mascherati (avete mai visto nei telefilm ragazzini adolescenti coi brufoli?) o vanno patologicizzati per vendere. E su quest’ultimo punto tanto ci sarebbe da dire sul disease mongering, cioè quel trasformare artificiosamente particolarità fisiche che non sono malattie (cellulite, brufoli, calvizie, menopausa) in malattie per vendere farmaci (vedi il bel saggio pubblicato sul British Journal of Clinical Pharmacology dal titolo Promoting diseases to promote drugs: The role of the pharmaceutical industry in fostering good and bad medicalization). Quanto è facile inserire in questi messaggi la paura per l’imprevisto (il legame stabile, il lavoro d’urgenza, il figlio, lo studente o il malato difficile). Vorremmo essere davvero “ego”-isti, invece siamo solo “Superego”-isti, cioè affannati a compiere i pensieri che la società ha impresso nel nostro Superego, a ribellarci ma col permesso di papà o del preside o del ministro (vedi la dinamica degli scioperi per il clima) cioè col permesso di chi dovrebbe rimetterci dalla ribellione. Come spiegava Pierpaolo Pasolini, “Generazione sfortunata (…) obbedisti disobbedendo!” (da Trasumanar e Organizzar).
L’invito che lei fa è ad un egoismo che voglia compiere i desideri senza temere la propria carne, cioè senza censurare i propri limiti e gli imprevisti. Ma quali possibilità ha? Sarebbe bello in un mondo in cui vigesse ancora uno iota di solidarietà e tutti non fossero orrendamente spaventati. Ma occorre essere egoisti seguendo il nostro dàimon, il nostro desiderio, pronti a cambiare rotta ai progetti se i nostri progetti non vi coincidono. Perché i nostri progetti hanno un limite: al massimo si realizzano.
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