Caro direttore,
Giuliano Ferrara sembra non avere dubbi: nella foto virale di un presidente americano che pronuncia il Discorso sullo Stato dell’Unione mentre la speaker della Camera lo straccia platealmente alle sue spalle, il nemico minaccioso della democrazia per lui è il primo; la seconda sarebbe invece una valorosa resistente per la libertà.
Non ha torto, in verità, il fondatore del Foglio quando segnala l’apparente decisività di questi giorni di inizio 2020. Un stagione – politica – si va inequivocabilmente chiudendo: non solo negli Stati Uniti. È quella di cui la 79enne dem Nancy Pelosi è probabilmente l’estrema epigona dopo Barack Obama. È (stata) una stagione caratterizzata da una singolare “coalizione” fra i segmenti moderati del bipolarismo statunitense: simboleggiati da due dinasty familiari (i repubblicani Bush e i democratici Clinton). Ma oltre Atlantico i cambi di stagione politica sono stati frequenti, spesso drammatici. Tuttavia non hanno mai avuto ragione di una civiltà liberal–democratica fondata nel 1776, su una Costituzione in gran parte in vigore tutt’oggi.
L’America non è stata distrutta neppure da una guerra civile, fra le cui vittime ci fu anche il presidente Abraham Lincoln: assassinato come un secolo dopo John Fitzgerald Kennedy, altro presidente-spartiacque. È stato vittima di un attentato Ronald Reagan, il presidente che ha di fatto tenuto a battesimo la stagione che oggi sembra al capolinea. Bill Clinton, che ne presiedette l’apice nei magnifici e progressivi anni 90, non riuscì a evitare un tentativo di impeachment. Richard Nixon, il presidente che mise fine alle guerra fredda con l’Urss e varcò le muraglie della Cina maoista, fu cacciato con ignominia per il Watergate. George W. Bush, nel 2000, fu proclamato presidente sul filo di un lungo riconteggio di poche migliaia di schede. Franklin Delano Roosevelt è considerato il più importante presidente dell’intera storia americana: rimase in carica per quattro mandati consecutivi. Sempre democraticamente eletto: la prima quando gli Usa precipitavano nella Grande Depressione, l’ultima quando milioni di soldati americani combattevano in Europa e in Asia.
La democrazia americana non è mai andata in crisi. È la sua politica ad andare periodicamente “in crisi”: ma sono passaggi finora sempre emersi come segni di salute, di forza. Quattro anni di “trumpismo” – che sembra più probabile, anche se non certo, saranno seguiti da four more years – non sono affatto una nuova “stagione”, almeno non lo sono ancora. Però hanno registrato fatti importanti.
Il primo è la sconfitta politica del tentativo del capitalismo finanziario apolide di riaffermare il proprio primato egemone e autoreferenziale anche dopo il crack del 2008 (ed è alla critica di quel mondo intrinsecamente “diseguale” che si rivolge in fondo il magistero sociale di Papa Francesco).
Il secondo fatto-chiave – plasticamente ritratto nel gesto frustrato di Pelosi – è la pretesa del nuovo establishment politically correct di difendere la propria autorità unica – imponendola definitivamente nella “fine della storia” – attraverso gli strumenti del giustizialismo mediatico. Ma il voto del Senato americano contro l’impeachement del presidente in carica sembra aver fermato al massimo livello una lunga deriva antipolitica.
Politique d’abord, ripeteva Pietro Nenni: vecchio leader socialista che aveva imparato il francese in fuga dall’Italia fascista. Ci mise quarant’anni a vedere il suo Psi al governo, nella “stanza dei bottoni”: dopo una dittatura, dopo la peggior guerra di sempre, dopo lunghi anni di apartheid politica nel dopoguerra repubblicano. Ma della politica in democrazia non bisogna mai diffidare. E da coloro che diffidano della democrazia che è sempre bene guardarsi.