Caro direttore,
la scomparsa di Maradona è stata metabolizzata, tuttavia si è persa l’occasione di aprire un serio dibattito sulle trasformazioni che lo sport del calcio da tempo sta subendo. Vorrei qui offrire qualche riflessione che non mi pare sia emersa negli articoli che hanno trattato l’argomento finora. Non è forse casuale che El Pibe de Oro se ne sia andato proprio ora, nell’epoca del divieto di praticare sport imposto dall’emergenza sanitaria e in cui l’unica possibilità di vedere il calcio è quella di sedersi sul divano e “godersi” lo spettacolo che viene offerto dai soli professionisti, pagati per praticarlo. Si parte il venerdì, a volte anche il giovedì, per finire la 
domenica sera, a volte anche il lunedì pomeriggio. “Calcio spezzatino”, così è stato battezzato. Di questi tempi in cui la sopravvivenza dello sport stesso è condizionata esclusivamente dagli introiti dei diritti televisivi. 



Il calcio è diventato globalista come il nostro tempo, trasformandosi in un semplice mercato, il cui unico valore sono i soldi. Le società calcistiche più forti ormai sono quelle che spendono semplicemente di più. L’obiettivo è quello di acquistare calciatori giovanissimi di grande potenziale e pagarli profumatamente, in modo da battere la concorrenza. L’attaccamento alla maglia, l’amore per una città e i tifosi di quest’ultima, sono valori che sono stati completamente cancellati. Giocatori come Francesco Totti e Gianluca Vialli sono soltanto un ricordo nostalgico. Il primo rinunciò a squadroni spagnoli, pur di scrivere la storia con la casacca giallorossa. Il secondo andava addirittura a dormire con il pigiama della Sampdoria. Oggigiorno invece un calciatore aderisce al progetto di una squadra quasi e solo esclusivamente per uno zero in più sulla busta paga. Raramente si fermerà in una stessa squadra per più di 2-3 stagioni, sempre che questa non sia, per l’appunto, una delle poche big.



Maradona se n’è andato in un tempo in cui gli stadi sono privi di tifosi e le telecronache hanno il tifo registrato, quasi a coprire quel terribile silenzio che da un anno caratterizza ogni partita di calcio, sempre che si possano ancora definire tali. Sì, perché un calcio senza tifoserie che calcio è? Se n’è andato con la tecnologia in campo che, per come utilizzata, sembra solo creare problemi che poi non è in grado di risolvere. Proprio lui, che con la mano de Dios ha scritto la storia segnando una rete completamente irregolare, e che oggi se la sarebbe vista annullare nel giro di pochi secondi, cancellando un evento storico conosciuto anche da chi non ha mai seguito il calcio nella propria vita. 



Perché le persone amano il calcio? Perché crea emozioni, perché unisce persone differenti e, a volte, le divide anche. Queste emozioni con il Var sono venute meno, non si può più esultare una volta che la palla entra in rete, dato che il marcatore potrebbe aver avuto l’unghia dell’alluce in fuorigioco. Qualche giorno fa, dopo il discusso incontro di Premier League tra Brighton e Liverpool, che ha visto regalare un rigore alla squadra di casa allo scadere da parte del Var e che ha decretato il pareggio, il calciatore del Liverpool James Milner ha postato un tweet in cui chiede di aprire una seria discussione sulla tecnologia in campo. Milner ha dichiarato di star perdendo l’amore e la passione che ha sempre provato per il calcio e questo proprio a causa dell’utilizzo spesso eccessivo del Var. Credo che molti giocatori la pensino come lui, ma non lo possano dire. Come del resto non potevo dirlo nemmeno io quando ero arbitro. 

Un’aggiunta dall’epoca del Covid: dopo aver eliminato i tifosi e cancellato le emozioni, l’unica cosa che rimaneva da fare per dare il colpo di grazie a questo sport così amato era quella di vietarlo a livello amatoriale. Non si capisce infatti perché i professionisti possano giocare, mentre a bambini, ragazzi e adulti che praticano lo sport per divertimento non sia riservato lo stesso privilegio. Il virus a quanto pare colpisce soltanto loro, al contrario delle “divinità” che militano nei campionati professionisti e che, in quanto divinità, sono protetti da un’aurea impenetrabile.  

(Francesco M. A. Becchi)