Caro direttore,
io credo che l’indiscusso protagonista di questo 2020 sia uno: il dolore. È come se la scena fosse quasi integralmente occupata da un interminabile “Venerdì Santo”. Dolore fisico, innanzitutto: contro ogni negazionismo o riduzionismo (è un’influenza, immunità di gregge, tirannia sanitaria e altre cazzate del genere) è sufficiente aver visto da vicino la faccia, il (non) respiro e la spossatezza di chi è affetto dal virus. Dolore psichico, poi, di tutte le persone coinvolte, malati e vicini, parenti o amici, che, nei momenti più concitati, si guardano l’un l’altro smarriti, cercando di raccogliere affannosamente alcuni effetti personali da mettere in borsa per l’ospedale.
Dopo comincia l’attesa, incerta e snervante, come un chiodo fisso h 24 nel cervello: blackout insomma!
Vedendo i miei genitori anziani accompagnati in ospedale mi sono venuti in mente questi pensieri. Gli infermieri e i medici sono integralmente ricoperti da camice, mascherina e visiera facciale, irriconoscibili nella loro persona. Così vestiti, sono diventati, loro malgrado, un segnale tangibile della circolazione del virus. Volutamente ho usato la parola “accompagnati”: a loro va tutta la mia gratitudine, sia per le capacità professionali, sia, soprattutto, per qualche battuta, che, inibito il sorriso, allenta un po’ la tensione.
Per la verità, mi è venuto in mente un passo noto de I promessi sposi, quello della madre di Cecilia, per me uno dei più commoventi della letteratura italiana; non certo per la presenza dei monatti, emblema della peste, a cui i nostri infermieri non possono nemmeno lontanamente essere accostati: questo dimostra che quattro secoli trascorsi dalla storia narrata da Manzoni non sono passati invano, contro ogni tradizionalismo oscurantista, che lamenta punizioni divine a causa di tutte le colpe dell’uomo (e altre cazzate del genere) e finisce in un negazionismo ancora più radicale.
Nel capitolo XXXIV del romanzo, Renzo entra a Milano, devastata dalla peste e in lockdown, in cerca della sua Lucia: “Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierìo di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichìo d’infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti. All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto […]. Milano si trovava ormai in tale stato, da non veder cosa giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de’ cittadini […]. Il tempo era chiuso, l’aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna d’intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per di più, quella solitudine, quel silenzio, così vicino a una gran città, aggiungevano una nuova costernazione all’inquietudine di Renzo, e rendevan più tetri tutti i suoi pensieri”.
Pensieri che Manzoni dettaglia in poche parole, con mano impareggiabile: “Il giovine s’era fermato sulla cantonata della piazza, vicino alla sbarra del canale, e pregava intanto per que’ morti sconosciuti. Un atroce pensiero gli balenò in mente: ‘forse là, là insieme, là sotto… Oh, Signore! fate che non sia vero! fate ch’io non ci pensi!’ Passato il convoglio funebre, Renzo si mosse, attraversò la piazza, prendendo lungo il canale a mancina, senz’altra ragione della scelta, se non che il convoglio era andato dall’altra parte”.
Non sembra una descrizione perfetta del nostro presente? Come tutti noi, di fronte a tanta visibile sofferenza, anche Renzo cerca di passare oltre il più velocemente possibile, ma, per fortuna, qualcosa ci ferma: “Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo”.
Segue la descrizione della madre di Cecilia, che adagia direttamente, con delicatezza, sul carro funebre il corpo senza vita della figlia: “Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, – no! – disse: – non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: – promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina”.
Un gesto che rivela l’incomparabile dignità umana – infatti Manzoni non dice il nome della madre -, unica cosa, in fondo, che può ancora sorprendere chiunque. Allora come oggi.