Non è una bizzarria. Al Natale preferisco la Pasqua. Dovrebbe essere la festa più importante, per i cristiani, ma il Natale trionfa, e i regali, i bambini, i Babbi Natali, la neve… anche se non c’è la neve, se non crediamo più a Babbo Natale, la fiera non si ferma, e mi infastidisce. La Pasqua, nonostante il trionfo di fiori e boccioli verde e azzurro, gratis per gli occhi di tutti, è più sobria: colombe e uova e agnelli, poverini, ma finisce lì. Senza l’Incarnazione non avremmo salvezza. Ma neppure un Dio incarnato basta: come dice San Paolo, se Cristo non fosse risorto, vana è la nostra fede. Il Risorto, è lui il mio Gesù. Quello di Piero della Francesca, custodito a San Sepolcro, la dominante rosa dell’alba, lo sguardo infossato ma ardente, dritto davanti a sé, all’eterno, e intorno i soldati che dormono, scompostamente, ignari. La pietra rivoltata, l’abisso del male folgorato, per sempre. È Cristo risorto che prego, neppure il Crocefisso, che di croci ne abbiamo tante, di supplizi la storia cristiana è piena. Ma un Dio in croce che vince la morte è la mia speranza, la mia povera speranza che arranca, ma, mi dice Péguy, è lei a tenere e tirare per mano le due sorelle più grandi, la fede e la carità.



Per questo vorrei innalzare il mio Te Deum laudamus, a Pasqua. Per tutto quel che abbiamo e che condividiamo, e ciascuno saprà il suo. Ma soprattutto per i sacerdoti. Per loro, nel vuoto di riferimenti autorevoli, in scienza e umanità, scolte vigilanti sul popolo ferito e desolato. Li ha ricordati il Papa, e si capiva che li pensava uno ad uno, nella liturgia del Giovedì Santo. Io ringrazio per lui, che ha il compito più difficile, per come sa sorprendermi, scardinando pregiudizi e sicurezze. Per il mio vescovo, che è guarito e ritorna umilmente a rincuorare la sua gente. Per il vescovo di Cremona, che appena uscito dalla malattia è tornato davanti all’ospedale, ringraziando e confortando. Per il vescovo di Bergamo, che ha pianto tanti suoi figli, benedetto le loro bare, e di Piacenza, e di Brescia e di Bologna… per il vescovo di Milano, che si è inchinato alla Madonnina, per il vescovo di Amatrice, che in quella terra devastata dal terremoto, dimenticata dalla politica e dai giornali, ha alzato la croce preservata dal sisma al vento, alle montagne, per chi la via crucis la vive da quattro anni. Per un vescovo che mi commuove, che ha subito la condanna e il carcere, immolato a una giustizia accanita e corrotta dall’ideologia.

Ringrazio per tutti i vescovi che non conosco, per i tanti vescovi e sacerdoti sparsi in paesi lontani, perennemente in missione, che rischiano la vita per tenere aperte le loro chiese, mentre noi ci siamo già abituati a vederle chiuse. Per i tanti sacerdoti mossi da creatività e tenerezza: mai visto, e grazie ai social per questo contagio buono, tanti preti perfino digiuni di tecnologia prestarsi alle dirette delle funzioni, a messaggi di cuore, anche se filtrati dallo schermo del telefono o del pc.

Una presenza: chi segue i bambini, chi invita a star dietro a quel povero e quell’altro, chi prega da solo e si porta appresso la sua comunità, chi riflette e spiega la Parola di Dio, chi recita le Ore, chi racconta, raccogliendo le testimonianze di tanti ammalati e di tanti guariti, nell’animo, prima che nel corpo. Grazie per quel vecchio prete che indossa i paramenti con venerazione, per darmi la Santa Comunione. Grazie a quel giovane viceparroco che s’ingegna con cavi e telecamere, perché la Chiesa sia aperta 24 ore su 24, e il tabernacolo entri nelle nostre vite, e tutto sudato si illumina, quando chiedo di confessarmi. Si può fare. Grazie per l’anziano monaco che ha cresciuto come un padre generazioni di ragazzi, burbero e gioviale, e morendo ha lasciato un’eredità in terra, conquistandosi quella del paradiso.

Grazie per chi accetta la vecchiaia, e capisce che il tempo riempito della preghiera non è un ripiego, un di meno, ma il gesto più sensato e utile, e non smette di sgranare rosari. Grazie perché che saremmo, dove andremmo, senza la Chiesa. Con tanti difetti, con tanta pavidità che mi fa arrabbiare, con troppa soggezione quando avrebbe il diritto e il dovere di essere libera e forte (i liberi e forti, ci chiamavamo un tempo). Ma nel vuoto di maestri e compagni, nella povertà di umanità e sapienza della politica, in mezzo a tutte le misure e le prese di posizione sbagliate, coperte dall’arroganza e dal timore di perdere potere, in questa immane tragedia che ci ha toccato e ci interroga ogni secondo, che ci spinge a chiedere, ad aprire le braccia, a chinare il capo, abbiamo qualcuno davanti a cui inchinarci e da cui attendere il perdono. Qualcuno cui chiedere il corpo del Risorto, per risorgere. Soli, strapazzati, calunniati, ma sopratutto soli, soli o costretti a fare i burocrati, gli amministratori, a inventarsi convegni inutili, a tornare la sera così stanchi, ma così stanchi, che non riescono nemmeno a sorridere. Grazie, perché ci sono, e senza la certezza che ci sono saremmo del tutto smarriti e tristi. Abbi cura di loro, Risorto, abbiamone cura.