Caro direttore,
durante tutta la vita, mi è capitato di attraversare luoghi o di percorrere ambienti o di incontrare persone con una profondità di sguardo, che mi è sembrato essere il talento più ragguardevole che la natura possa donare. Certamente questo cammino ha subìto delle evoluzioni significative, tanto da doverlo considerare oggi non una semplice disponibilità degli occhi ad entrare confusamente nel susseguirsi continuo di elementi o di sfumature lamellari, da carpire nell’attimo di un sospiro per poi lasciarle morire al sopravvento di altre immagini della realtà.



Il mio cammino dello sguardo oggi è diventato più adulto, più connaturato alla mia capacità critica, al mio senso di appartenenza a misure disossate dal pregiudizio, ad una curiosità non pettegola, ma da ricercatore del vero, con pazienza, con umiltà, con il gusto dell’esserci e del considerare i mei limiti e le mie impurità. Credo di intuire la distanza vertiginosa che intercorre tra il momento generativo della realtà materiale e spirituale dell’Universo e l’attimo in cui i miei occhi, insieme al mio respiro e al mio desiderio di conoscenza e alle mie vibrazioni, quasi risultanti di un impatto di radianza su ciò che è abbracciato dal mio sguardo, hanno percepito l’affacciarsi di elementi alla mia attenzione: anni luce o luce impenetrabile e non misurabile nella sua intensità manifestata.



Così guardo la realtà nella sua composizione naturale ed antropica, con lo scopo di scorgere in essa l’essenza del suo percorso, la strategia che l’ha partorita, il gusto delle forme, la spettacolarità della concretezza olistica del mondo naturale e l’ingenuità bizzarra del mondo antropico. Ho imparato ad attraversare spazi, luoghi, persone, idee, conflitti, progetti, dissapori e fantasie, con il desiderio di interpretare le forme, le radici, le costituzioni basali e le modalità di agglutinamento, sorprendentemente inconsapevoli, degli elementi che si propongono allo sguardo per essere decifrati, riconosciuti, persino amati, talvolta, ma, soprattutto, recepiti dalla mente.



In questi ultimi anni della mia vita mi è capitato di vivere, per lunghi periodi, forme e modalità di appartenenza ad un luogo davvero importante per la crescita del mio essere: il carcere, dove ho svolto una funzione non propriamente dissimile da quando insegnavo nelle aule universitarie: insieme ad altri volontari aiuto gli studenti detenuti a preparare gli esami universitari. Questo atto, nel trascorrere del tempo, è diventato lo svolgimento di un compito che non mi sono cercato, ma che mi è stato proposto e al quale ho dato il mio cuore, la mia affettività e la mia intelligenza. Un po’ alla volta, giorno dopo giorno, dentro un rapporto sempre più stringente con i detenuti, ho iniziato a percepire di vivere in un luogo, la cui peculiarità prevalente è data dal confluire di personalità molto diverse, ma accomunate dalle differenti prescrizioni della legge e da chi ha il compito di controllare che la pena inflitta sia adeguatamente rispettata.

Si potrebbe pensare che, in una istituzione penitenziaria, nessuno viva serenamente o con la consapevolezza di pagare lo scotto per una colpa meritata: i detenuti, gli assistenti carcerari, l’apparato direttivo, nessuno sembra essere contento della vita che conduce.

Eppure, è proprio in questa complessità dell’essere umano, che ha come denominatore comune l’assenza di felicità, di speranza, di ragionevolezza, persino dei contenuti legislativi, che si identificano i connotati più preziosi di questo luogo. La privazione della libertà, la tristezza dell’essere reclusi più o meno giustamente, e, per altri versi, la pesantezza di dover far rispettare le decisioni dei magistrati, sono le proprietà fondamentali per imparare a conoscere uno spazio abitato come luogo di pena, di sofferenza coatta, di obbligo di residenza per anni e molti anni ancora. Tutto questo mi fa vivere il senso di appartenenza ad un luogo sacro, cioè ad un luogo dove l’essere umano vive la sofferenza quotidiana, spesso senza sapere a chi offrirla, con chi dialogarla, come affrontarla nel trascorrere del tempo, che pur nella determinazione del magistrato, sembra non finire mai.

Ma non è questo, forse, l’ultimo tratto della vita di Gesù: insultato, torturato e crocefisso? Ecco perché il carcere è un luogo sacro: è la ripetizione, entro certi limiti, di quanto accaduto al Salvatore del mondo duemila anni fa. Come ovunque, ci sono gli oppressori, obbligati a reprimere, e gli oppressi, colpevoli secondo la legge, ci sono le coercizioni a cui tutti debbono adeguarsi; talora, si constata addirittura lo stupore di qualche recluso per essere caduto in una rete a maglie così strette, dove, al fondo, conta poco quello che tu detenuto sostieni, anche se sorretto da un buon avvocato: contano soprattutto elementi incontrollabili, solo apparentemente verificati in sede di indagini giudiziarie.

La tortura non è quasi mai inflitta corporalmente, ma viene fatta filtrare attraverso dati oggettivi in parte e dati desunti da pregiudizi formalmente inesistenti. C’è anche la spoliazione dell’individuo, cioè la privazione di qualunque diritto, un modo per far crescere il livello di sopraffazione da parte di chi, invece, dovrebbe educare a una vita diversa, più amorevole, più misericordiosa, nonostante gli errori che il detenuto possa avere commesso. Sembra essere un luogo dove, nella differente dissipazione del male compiuto, si aggiunge, come risposta spettrale, il male dell’apparato di servizio e di controllo, quasi una contaminazione infelice, senza pietà, senza logica, che, invece, richiederebbe un lenimento immediato, mai una giustificazione, ma solo un’accoglienza come primo lenimento all’ingiustizia commessa.

È anche in funzione di quanto sopra accennato, che, ogni volta che entro in un penitenziario, avverto la necessità di rivolgere a Dio una preghiera di aiuto per coloro che sono costretti in quel luogo, siano colpevoli, siano addetti alla sorveglianza dei colpevoli. Il luogo è sacro perché, al di là della ragionevolezza con cui la legge viene fatta rispettare, il dolore che si sperimenta, guardando i volti delle persone, è come sangue versato sull’altare di Dio, sangue che, in realtà, non è offerto da nessuno o quasi, è solamente il frutto di una violenza, a volte inconsapevole, consumata per obbedire alla legge, come segno di civiltà.

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