Gentile Direttore,

per quanto ancora dovremo sopportare un modo di fare politica e amministrare la giustizia che usa di questi strumenti del “bene comune” della res publica come clava per l’affermazione di una fazione contro l’altra? Regioni-Stato, modello lombardo-sanità pubblica, Italia-Unione europea, Covid da laboratorio-Covid da pipistrello ecc., dove tutto appare (se non fosse tragico) come un interminabile derby fra tifoserie?



Intanto si continua a morire.

Meno negli ospedali, sempre di più sul territorio.

Vecchi (sì uso questo termine non troppo politicamente corretto) barboni, senza casa, disadattati, poveri, non autosufficienti, cronici, che siano confinati nelle “famose” RSA (Lombardia) o  CRA (Emilia e Romagna) o nella solitudine dei nostri quartieri poca cambia. Non occorre essere degli studiosi per rendersene conto, basta parlare con i parroci dei nostri paesi (quante benedizioni di bare noncoronavirus?) o spulciare i dati dell’anagrafe del comune e confrontare i morti negli anni precedenti paragonati a questi due mesi.



Una domanda sorge legittima: non è che attaccare modelli o parlare di “modelli” di sanità, aprire o chiudere inchieste, non sia altro che distogliere l’attenzione dalla realtà di ciò che sta accadendo ?

Il suo giornale attraverso inchieste e articoli sta dando un contributo prezioso e corale per fornire elementi di informazione e paragone affinché il lettore possa avere una opinione e formulare un giudizio.

Vorrei perciò fornire un piccolo contributo che nasce dalle semplice constatazione che è davanti agli occhi di tutti e che non necessita di particolari capacità o analisi, ma che sorge spontanea davanti all’onda d’urto prodotta dall’emergenza.



Stiamo pagando lo scotto dell’ospedalizzazione della salute.

Non solo quindi l’emergenza “da virus” ha messo alle corde quella concezione di sanità che finiva inevitabilmente nel pronto soccorso, non solo l’emergenza sta facendo emergere che il vestito da “Arlecchino” delle toppe regionali è ormai logoro, lasciando l’italiano nudo, ma che occorre ritornare sul territorio.

La “strage” nelle strutture per anziani, l’abbandono a se stessi dei medici di base, l’assistenza domiciliare crollata, le famiglie con disabilità psico-fisiche senza appoggi, gli operatori senza tamponi e DPI adeguati, sono la punta di un iceberg  di un problema di sanità sociale ben più vasto che l’emergenza corre il rischio di fare esplodere.

Certo, se ci sono state leggerezze o responsabilità di singoli è corretto e giusto approfondire, ma se perdiamo l’occasione di interrogarci seriamente (dal cittadino al politico) sulla politica e gestione della sanità e della salute sul territorio, corriamo il rischio di pagare uno scotto di vite umane e di qualità della vita per i prossimi anni elevatissimo.

Il crescere dell’anzianità della popolazione non farà altro che aumentare la domanda di assistenza e non può essere pensabile che la risposta sia nel moltiplicarsi delle strutture esterne alla famiglia o nella ospedalizzazione della cronicità. Se a questo poi colleghiamo il fatto che le nuove generazioni che dovranno farsi carico del problema sono quelle dei lavori precari di oggi, degli stage lavorativi consecutivi, della elevata disoccupazione giovanile o del “lavoro nero istituzionalizzato”, possiamo ben comprendere la bomba sociale sul quale oggi siamo seduti. La generazione di oggi ha potuto contare sui risparmi dei nonni ed in parte dei padri, quella di domani sui debiti.

Troppo grande è la zona grigia che divide “l’ospedale” dal territorio e se pensiamo che la fase successiva all’emergenza sarà quella che ricadrà proprio sulla gestione sociale della sanità sul territorio e che l’onda lunga arriverà ad investire i nostri enti locali più di quanto sia accaduto ora, ci rendiamo conto di quanto sarà dirompente l’ampiezza di questa zona grigia.

Questo periodo di emergenza sarà ricordato non per la lungimiranza dei leader politici, sarà ricordato per figure come quelle di papa Francesco o del presidente Mattarella, per il sacrificio di tempo e anche di vite di medici, operatori, infermieri, sacerdoti che hanno dato ben oltre la responsabilità professionale o sociale, per quegli amministratori locali che si sono spesi per la propria gente nonostante l’abbandono o la burocrazia.

Se è pur vero che nei momenti più bui per il nostro paese, ciascuno ha saputo attingere dal profondo della propria esperienza e tradizione di popolo per ricostruire, non buttiamo questo immenso apporto di solidarietà, gratuità, impegno e lavoro dei singoli, senza avviare una seria riflessione sociale e politica di revisione e programmazione della sanità e salute nel nostro paese.

Certamente una responsabilità della politica, ma della politica con la P maiuscola.

Stefano Dondi