Caro direttore,
sono un professore in pensione che ha già scorso con la mano quel segnavita costituito da una cordicella lunga ottanta centimetri, lasciandosi alle spalle l’ottantesimo compleanno, così da potersi considerare spettatore in diretta di tutta la vicenda repubblicana. Si parla tanto di odio che pervaderebbe l’intero paese, ma io, confesso, un odio compatto e aggressivo, ispirato a un sentimento ideologico, enfatizzato dal riferimento al blocco occidentale e orientale, l’ho visto all’indomani della fine della guerra e negli anni immediatamente successivi, se pur sotto il comune timore di un confronto atomico.



Oggi – mi sentirò influenzato dalla recente lettura del libro di Fukuyama Identità – credo che a dominare sia la rabbia, causata dalla sistematica erosione delle identità che affondano le loro radici nell’intera storia della nostra Italia. Si è fatta ironia, se non di più, sulla triade composta da Dio-patria-famiglia, regalandola alla destra, fino a considerarla addirittura una formula, se bene, medievale, se male, fascista. Eppure sono e sono rimaste le uniche autentiche macro-identità, con tanto di benedizione di una Carta costituzionale, citata o ignorata a proprio comodo.



Premetto che, pur avendo un passato di parrocchia, non sono credente, ma ciò non toglie che non un Dio anonimo, ma un ebreo morto sulla croce duemila anni orsono abbia segnato il nostro cammino, forgiando il credo etico, il costume, l’enorme patrimonio artistico, il panorama circostante, tutto ciò che ha perennemente rallegrato il nostro sguardo e incrementato il nostro orgoglio: molti di noi sono stati battezzati col segno della croce, molti andranno a riposare per sempre sotto lo stesso segno.

Non è del tutto incomprensibile coltivare un senso di disagio verso una cultura completamente opposta quale quella musulmana, che non va giudicata in base all’esigua minoranza presente nel nostro Paese, ma in ragione della quasi totalità di fedeli esistente in molti Paesi dell’Africa e dell’Asia, dove di dritto o di rovescio il Corano è ancora il testo di riferimento del convivere politico e civile: qui si moltiplicano i minareti, là si radono al suolo i rari campanili. Di certo una parola come multiculturalismo, che dovrebbe trovare il suo comun denominatore in regole minime condivise, espressioni di una identità del tutto formale, non è rassicurante in sé sola, non fosse che perché non ha dato buona prova laddove è stata condivisa alla lettera.



Non per nulla la Costituzione, pur nella sua laicità, ha previsto uno spazio particolare per la Chiesa cattolica, al suo articolo 7, col prevedere un rapporto concordatario; e così ha fatto in maniera più esplicita per la Patria (citata con la lettera maiuscola) al suo articolo 52, dichiarando essere un sacro dovere del cittadino difenderla. La patria non è una qualcosa di astratto; è questa penisola meravigliosa, questa terra popolata di municipi, dove si parla una lingua dolcissima, con tutte le varianti dei dialetti regionali, che solo a risentirla echeggiare in terra straniera fa l’effetto di una campana a festa risuonante dal campanile del proprio paese natio. Siamo una nazione, sì, e sarebbe bello che lo rinnegassimo dopo aver fatto una tremenda fatica per costruirla; senza questa mediazione, l’Europa resta una realtà lontana, identificata coi palazzi anonimi di città per quanto nominate rimaste quasi sconosciute.

Ed ecco per ultima la famiglia, quella eterosessuale, consacrata dagli articoli 29 e 30 della Costituzione, cellula primaria della società, che ha mantenuto qui da noi una presenza fondamentale, che alimenta la voglia di una casa, non declassata a mera proprietà immobiliare, ma vista e vissuta come un comune focolare, con la concezione dei figli come un indispensabile completamento e con la cooperazione tacita e generosa dei nonni. Che vogliono dire le famiglie arcobaleno, che tutte le convivenze sono uguali? No, Costituzione alla mano, la famiglia eterosessuale è un valore da promuovere, tutte le altre combinazioni sono libertà da garantire.

A mio avviso, il dramma di una certa sinistra è aver dimenticato tutto questo, dopo aver perso la macro-identità della classe operaia, e di essersi  lanciata nell’enfatizzazione dei diritti civili, inseguendo senza accorgersene un individualismo narcisistico per cui uno è quel che si sente di essere, con conseguente diritto di esser fino in fondo riconosciuto e supportato dallo Stato come tale, fino all’autentico assurdo di voler cancellare all’anagrafe i nomi di padre e madre, di quella mamma che è la prima e ultima parola a fiorire sulla bocca di tanti. Una selva di micro-identità, che assordano le orecchie, per occultare la loro relativa irrilevanza.