Caro direttore,
partecipando l’8 agosto scorso all’annuale commemorazione dei minatori morti a Marcinelle nel 1956, non ho potuto non constatare con rassegnazione che neanche una delle più grandi tragedie della nostra plurisecolare storia di emigrazione è riuscita a sfuggire alle strumentalizzazioni proprie della campagna elettorale in corso e a rappresentare un momento autentico di unità nazionale. Davvero un brutto spettacolo.
Eppure i 136 italiani morti a Marcinelle quel tragico 8 agosto, i cui nomi ogni anno alle 8.05 vengono citati accompagnati dal rintocco delle campane, rappresentano il segno, come ha ricordato il presidente Mattarella, della nostra identità, accomunando nella sofferenza l’intero Paese da Nord a Sud.
Furono tanti gli italiani che nell’immediato dopoguerra si riversarono nella regione della Vallonia alla ricerca di un avvenire migliore per sé e per le proprie famiglie, grazie al protocollo con il Belgio firmato da De Gasperi nel 1946. In base ad esso, in cambio di carbone a basso costo veniva offerta manodopera; così, nel primo decennio dall’accordo, saranno circa 140mila gli italiani che emigreranno in Belgio.
Come emerso dai racconti dei testimoni durante la commemorazione, al loro arrivo in Belgio gli italiani vennero trattati con disprezzo: subivano le ultime scorie di quel nazionalismo che nel Novecento aveva condotto l’Europa alla catastrofe delle due guerre fratricide. Era dura la vita per i nostri connazionali che in molti casi si vedevano negati il diritto all’affitto di una casa, ad entrare nei negozi, o vedere i propri figli frequentare classi diverse da quelle dei belgi. Usarono persino una parte dei propri risparmi per costruire una chiesa dove poter pregare. Le stesse persone rimaste orfane hanno raccontato le condizioni in cui erano costrette ad alloggiare al loro arrivo. Erano luoghi per lo più inospitali: baracche usate durante la guerra per la detenzione dei prigionieri, al cui interno le temperature d’inverno e d’estate diventavano estreme. Il marchigiano Urbano Ciacci, ultimo minatore di Marcinelle in vita, ha descritto la giornata di un minatore a mille metri di profondità nel “buco nero”, come i minatori chiamavano la miniera del Bois du Cazier. La sua voce non ha retto all’emozione quando ha ricordato cinque suoi compagni abruzzesi, appartenenti ad una stessa famiglia, rimasti intrappolati nell’incendio divampato in miniera quel tragico giorno.
Ma la tragedia di Marcinelle non ha assunto solo un significato nazionale. Essa si inserisce infatti nel processo di integrazione europea dal momento che, appena quattro anni prima nel 1952, con la nascita della Ceca era stata posta la prima pietra della costruzione comunitaria, grazie all’accordo sul carbone e sull’acciaio volto ad impedire materialmente il ripetersi di un nuovo conflitto all’interno dell’Europa. Come dalla catastrofe della seconda guerra mondiale è nata, sull’isola di Ventotene, l’idea di un’Europa unita politicamente, dalla catastrofe sul lavoro a Marcinelle nascerà l’idea di cittadinanza europea. Il sacrificio dei 262 minatori morti appartenenti a diverse nazionalità europee farà compiere infatti all’Europa un salto di coscienza nella concezione di se stessa. Nell’inferno della miniera, ha ricordato Urbano Ciacci, “non c’era razzismo”. Essa fu un laboratorio di umanità, divenendo così uno strumento formidabile di amicizia che preparava a comunità più profonde.
Le istituzioni comunitarie attribuiranno infatti a questo tragico evento un significato europeo, apportando modifiche radicali alle condizioni di lavoro e alla sicurezza dei minatori dell’intera Europa comunitaria. Appena un anno più tardi nel 1957, i trattati di Roma daranno l’avvio al processo di integrazione per quanto riguarda il Mercato comune europeo, fondando la Comunità economica europea. Marcinelle costituisce, pertanto, uno spartiacque fondamentale nel processo di costruzione dell’Europa quale spazio giuridico a tutela dei diritti della persona umana, come del resto dimostra la gigantografia della tragedia esposta perennemente al Parlamentarium accanto all’emiciclo della sede del Parlamento europeo a Bruxelles.
Dal 2001, l’8 agosto è diventata anche la Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo. Ed in effetti la tragedia di Marcinelle ci restituisce ancora il senso autentico del lavoro che non è un gioco: esso reca con sé un elemento ineliminabile di fatica, di sacrificio, il cui scopo è quello di costruire un’opera che è contemporaneamente strumento di realizzazione della propria persona e servizio alla società. “Il lavoro è per risorgere”, ha scritto in un famoso verso il poeta polacco Norwid.
Non è un caso allora che la nostra Carta costituzionale, espressione più alta di quel secondo Risorgimento che è stata la liberazione dal nazifascismo, afferma nel suo primo articolo che “la Repubblica è fondata sul lavoro”. È su questo pilastro infatti che si realizzò quel compromesso alto tra le diverse anime dell’Assemblea costituente, come disse espressamente Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, a conclusione dei lavori preparatori della nuova Carta costituzionale: “Desidero dirvi la sintesi del compromesso, quale si è venuto delineando spontaneamente, più che per negoziati, e potrà non avere l’approvazione di tutti, qui dentro, specialmente agli estremi; ma è il punto in cui ci possiamo incontrare ed ha i caratteri della necessità storica. Ecco la sintesi: aprire le vie al lavoro”.
Ricordare la tragedia di Marcinelle significa allora non solo far memoria della nostra identità italiana, ma anche ritornare alle radici della nostra convivenza civile e al cuore del processo di integrazione europea ancora per certi versi incompiuto. E certamente, in un senso ancora più profondo, significa penetrare nel mistero della nostra esistenza umana, come ci ricordano i testi sacri: “la vita dell’uomo sulla terra è una guerra; i suoi giorni sono simili all’operaio” (Gb 7,1).
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