Caro direttore,
è accaduto qualcosa di straordinario, sabato 13 novembre, a Milano all’Arco della Pace. In quello spazio simbolico la presenza di migliaia di persone era innegabile per chi, come me, ha visto nella diretta del Corriere della Sera apparire uno dei Kennedy, colui che vide suo zio e poi suo padre, senatore e procuratore generale del fratello presidente degli Stati Uniti, morire assassinati, uno nel 1963 e l’altro nel 1968, durante la sua campagna alla presidenza. Ognuno di noi negli States ricorda ancora e per sempre dove eravamo in quei due giorni fatali, separati da pochissimi anni, a sentire la scioccante notizia.
Robert Kennedy Jr. ha parlato con la sua voce disfonica alla crescente massa di persone che di sabato chiede “libertà” nelle piazze italiane. In un’intervista Robert (così lo chiamavano gli italiani all’Arco della Pace), quando gli hanno chiesto perché avesse scelto Milano, ha risposto che l’Italia è il paese più organizzato in quello che, a mio parere, si deve ormai definire un movimento, e di cui Robert Kennedy è chiaramente diventato il suo leader. Un leader che fa i nomi di chi ha pianificato la strumentalizzazione di una pandemia per colpire le democrazie liberali, e per stringere il cerchio degli avvantaggiati.
La differenza fra lui e altri che hanno alzato la voce per smascherare la strategia della paura a cui siamo sottoposti da quasi due anni a suon di costrizioni varie e continue, è che lui conosce l’establishment dall’interno, per esserci cresciuto e averlo conosciuto fino in fondo, per poi rifiutarlo. Ora lo racconta senza esitare, perché come ha detto alla fine: “I will stand by you, and if I have to die for this, I’m going to die with my boots on!” (Rimango con voi, e se devo morire per questo, morirò con la “spada in mano!”) Ecco che la legacy dei mitici Kennedy torna in vita, ma con una radicalità sorprendente. Robert va più in là, perché tutto ora sta andando oltre.
Questo fatto che per me è straordinario, mi sono subito domandata come sarebbe stato recepito dai giornali mainstream il giorno dopo. Con questa domanda sono andata a leggere tre giornali: il New York Times, il Washington Post e il Corriere della Sera. Nulla sui primi due, forse meglio di ciò che invece ho letto sul Corriere, che ironicamente era stata la fonte della diretta online, ma che il giorno dopo vi dedica solo una colonna di un opinionista che non serve nominare, il quale scrive che mancava “la farsa” nella storia della famiglia Kennedy. Poi scrive che “Senza voce, senza cappotto [RK] si è lanciato in una serie di strabilianti affermazioni”. La voce di Robert soffre, come sopra accennato, di una seria condizione. Ma il cappotto gli americani non lo portano mai quando ci sono solo 13 gradi! Eppure questo non-giornalista non perdona, e si lancia poi in una lista, fatemelo dire, negazionista di vari frammenti del discorso (da lui decontestualizzati) che cerca di smantellare con un mancato senso d’ironia, per concludere che non si può né piangere né ridere ma c’è solo da sperare, ci dice, “che Robert Kennedy – quello sensato – getti un’occhiata dall’alto, perdoni il figlio e interceda per tutti noi. Siamo in una pandemia, infatti, e non è ancora finita”.
A parte la banalità e la povertà di intelletto, ciò che più colpisce è il Corriere della Sera nel suo evidente dilemma: non potendo rimanere fuori dalla competitività della breaking news, proietta la diretta senza alcun commento – per un suo momento di gran giornale – per poi tradirsi il giorno dopo e far parlare un opinionista ben noto, così rendendo trasparente la sua complicità con un’ultima frase che sembra proprio essere stata appiccicata lì: “Siamo in una pandemia, infatti, e non è ancora finita”.
E così i giornali mainstream servono a farci capire che Robert Kennedy Jr., assieme alle moltitudini che non smettono di raccogliersi nelle piazze, forse su certe analisi e osservazioni hanno proprio ragione.
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