Caro direttore,
Antonio Polito sul Corriere di un paio di giorni fa confessa d’esser stato colpito al funerale del figlio giovanissimo di una collega, investito per strada. Una storia che ha commosso molti. Lo hanno colpito la morte assurda di Francesco, dinanzi alla quale, trovandosi “con gli occhi gonfi” in Santa Maria del Testaccio a Roma, “abbiamo cercato di trovare un senso”. Lo hanno colpito le centinaia di giovani amici e compagni del ragazzo. “Non avevo mai visto – dice – così tanti giovani in fila per prendere la comunione”. E soprattutto lo ha colpito il fatto che il prete, don Maurizio, un salesiano, abbia dato l’unica risposta possibile, non a riguardo del senso misterioso del fatto, ma al dolore che ne deriva.



Lo ha colpito che quel prete abbia detto che occorre “aver fede per credere alla resurrezione di Francesco”. Poi dopo aver detto che lui quella fede non ce l’ha, il noto giornalista si rammarica nella seconda parte dell’articolo che in Italia si sia “così indebolito il messaggio cristiano”. Sospira “che guaio!” ora che “proprio il nostro tempo, così scristianizzato, dovrebbe essere il più adatto al messaggio cristiano. È nei deserti della secolarizzazione che abbiamo più bisogno della promessa di vita eterna”. E lamenta che, a parer suo, troppi preti invece se la cavano in quelle situazioni con parole di circostanza e burocratiche.



Da un lato ammiro la disponibilità di Polito, da tempo abituato a dialogare in pubblico con preti a credenti, a esporre questa sua commozione e stupore. Dall’altra mi pongo – e gli pongo – qualche domanda.

Forse il problema non sta solo nella debolezza di proposta della Chiesa. Io, che mi definisco cattolico anarchico di rito romagnolo, sono il primo a soffrire davanti al burocratese o al mielume clericale. Però credo che il punto di fuoco sia nel suo chiudere il problema prima di aprirlo davvero, quando dice che lui quella “fede” purtroppo non ce l’ha.

Cosa non ha? E perché? Che posizione prende l’uomo Polito che parla nell’articolo dinanzi alle parole di don Maurizio – che in realtà sono le stesse ripetute in tutti i funerali? È follia? Gesù Cristo era un buffone o è risorto? Occorre rispondere laicamente, cioè con sincero aperto uso della ragione, a questa domanda per inoltrarsi nel cristianesimo. Per non ridurlo a fenomeno sentimentale, proprio mentre lo si “rimpiange”. Come si prende posizione dinanzi a un governo o a un altro, sarebbe interessante vedere posizioni motivate dinanzi a Gesù Cristo.



Non importa solo che il giornalista dovrebbe sapere che quelle parole sulla resurrezione sono ripetute ovunque – forse non ha prestato orecchio – e forse i media dove anche lui lavora non le ascoltano, non le replicano mai, se non in stanche cronache vaticane o papali. Importa soprattutto vedere che il problema-Gesù è sistematicamente evitato, o ridotto al semplice “chi ha fede e chi no”.

Ma la fede non è una suggestione, un caso; è un incrocio tra ragione e grazia, tra lettura dei segni e libertà. Di fronte al segno di quel funerale, occorre prenderlo sul serio, indagarlo. Da dove viene la fede di don Maurizio e di quei giovani? Raccontatelo sui vostri giornali, invece di rifilarci sempre storie di altra gioventù e di altri leader. Se no la lettura, per quanto emozionante e partecipe, finisce per essere drammaticamente superficiale e ottenere l’effetto opposto dell’incuriosire sul cristianesimo, considerato alla stregua di una proposta non più “forte”, un vecchio arnese. Sono partiti in dodici, quale era la loro forza?

Del resto, forse Polito ricorda che nell’avvento della prima pandemia, in uno scenario di morte e disperazione, io mi esposi (e ci ho rimesso) perché mentre si tenevano aperti tabaccai e supermercati e mense per i poveri, si vietò di fare la messa di Resurrezione, la messa di Pasqua. Mi sembrò una decisione abnorme, che privava quel frangente di una proposta di speranza, e che adeguatamente organizzata si sarebbe potuta benissimo fare, magari a piccoli gruppi, in rappresentanza. Sentivo da uomo e da poeta che negare quel segno non era casuale, non era giusto, non era necessario.

Ma anche Polito fu tra quelli che criticò la mia proposta, leggendola come altri solo con banali occhiali “politici” invece che umani ed esistenziali come occorreva.

Ora anche per quello che ha visto a Testaccio, spero ci abbia pensato meglio. E che la sincera, ammirevole commozione diventi, in lui come in altri, se vorranno, anche un perdurare di atteggiamento, un lavoro. Una sfida, umilissima e sì, rischiosa. Insomma, una domanda, non un rimpianto.

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