Caro direttore,
la cosiddetta “emergenza odio” viene rilanciata come massima priorità politica da esponenti di punta del governo Conte 2. Dopo l’allarme del ministro (tecnico) dell’Interno Luciana Lamorgese, ieri è stato il sottosegretario alla Presidenza con delega all’Editoria, Andrea Martella (Pd), a portare la campagna sul rapporto fra hate speech e fake news. A essi ha risposto una leader dell’opposizione come Giorgia Meloni, secondo la quale in Italia non c’è affatto una “emergenza odio”. Il dibattito frontale rimane il sale della democrazia, così come resta agli elettori l’ultima valutazione sulle scelte di agenda di un governo e della sua maggioranza.



Sul Sussidiario è stato segnalato più volte che sembrano altre le emergenze-Paese che l’esecutivo in carica dovrebbe sentirsi chiamato ad affrontare in via prioritaria. Quella sotto i riflettori in queste ore è certamente lo stato delle grandi infrastrutture nazionali. E a proposito: le affermazioni di Oliviero Toscani sui morti del Ponte Morandi sono più o meno hating della citofonata di Matteo Salvini al presunto spacciatore di Bologna? Nell’intervista a Lamorgese non manca un dito puntato contro il suo predecessore (un senatore eletto). Nulla invece sul caso Toscani: punta mediatica del gigantesco iceberg sommerso Benetton-Atlantia, di estremo imbarazzo politico per il premier Conte e per il Pd.



Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, sembra nel frattempo concentrato su due “emergenze”: il taglio dell’Irpef ai redditi più bassi (spesato dall’aumento dell’Iva e/o da nuovo deficit in contrasto con i parametri Ue) e la rimozione dell’amministratore delegato della Rai, per accelerare il ricambio dei direttori dei Tg (e, par di capire, dei loro “linguaggi”). Sono dossier più urgenti del rilancio degli investimenti pubblici in infrastrutture? E la governance del gruppo Fs (in rinnovo fra qualche settimana) non preoccupa l’azionista Gualtieri? Dai morti di Livorno siamo arrivati a quelli di Lodi passando per Pioltello.



L’agitamento della cosiddetta “emergenza odio” presenta comunque aspetti intrinseci meritevoli di attenzione e discussione. Riguardano il progress politico-istituzionale della campagna. Martella (reduce dall’aver firmato un pacchetto di aiuti pubblici all’editoria robusto nell’entità e selettivo nella destinazione), nella sua lettera di ieri a un importante quotidiano ha ricordato di “aver chiesto alla ministra dell’Interno di riattivare, come è stato tempestivamente fatto, il Centro di coordinamento dell’attività di analisi e scambio di informazioni sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, così da rafforzare la rete di protezione e le tutele per chi fa informazione”.

Sembra un’iniziativa in sé del tutto condivisibile: ma a patto che riguardi tutte le minacce a tutti i giornalisti. La difesa della libertà di stampa – così come la più generale sensibilizzazione contro il linguaggio d’odio, in particolare quello a sfondo razzista e antisemita – è certamente una battaglia di civiltà: per questo non può mai essere avocata o strumentalizzata da una parte politica contro altre parti della democrazia parlamentare. Di più: è un questione parlamentare per eccellenza. E invece proprio la sortita di Martella conferma una fase di “appropriazione” in corsa da parte del Governo.

“Il Governo – scrive il sottosegretario – dopo la nomina della coordinatrice nazionale della lotta contro l’antisemitismo, ha istituito anche un gruppo di lavoro di studiosi ed esperti per contrastare l’hate speech, il discorso che fomenta l’odio, particolarmente velenoso quando poggia in maniera perversa sulle fake news…. Credo davvero che sia arrivato il momento di dar vita ad un ‘patto’ civico e culturale per tutelare chi di fatto rappresenta un pilastro della nostra democrazia, che poggia necessariamente sul pluralismo, sull’indipendenza e sulla libertà dell’informazione”. Il titolo dato sul quotidiano alla lettera è “Un codice politico anti-odio”, anche se il testo della lettera si limita a sollecitare e prospettare “azioni concrete”.

Sembra comunque di poter apprendere che Palazzo Chigi sta meditando di duplicare sul fronte dell’informazione l’iniziativa del “presidio” governativo deciso in corsa tre settimane fa per il contrasto all’antisemitismo. Senza entrare nel merito della questione (che sul contrasto all’antisemitismo non può peraltro essere oggetto di discussione alcuna), colpisce che il Governo proceda per propri fatti compiuti: non solo bypassando il Parlamento, ma anzi ignorandolo. Riguardo lo stesso presidio di coordinamento contro l’antisemitismo non è affatto chiaro a quale fonte legale possa riallacciarsi nel definirne status istituzionale ed eventuali poteri.

Già lo scorso ottobre, d’altronde, il Senato ha votato formalmente l’istituzione di una commissione straordinaria per il contrasto al linguaggio d’odio. La commissione è stata varata sulla base di una mozione che aveva come prima firma quella della senatrice a vita Liliana Segre. E fra i compiti dei 25 senatori designandi nella “commissione Segre” (la senatrice si era detta inizialmente disponibile a guidare personalmente i lavori) c’è la proposta e/o l’esame preventivo di proposte di legge (cosa molto diversa dal vago e opaco “patto civico-culturale” menzionato da Martella).

La “commissione Segre” è parsa dunque indirizzarsi subito su un percorso esemplare di democrazia costituzionale, confermando anzi un’opzione di principio: il contrasto al linguaggio d’odio e in particolare dell’antisemitismo compete al Parlamento e ha come obiettivo una proposta di legge, cui la delicatezza del tema sembra raccomandare un approccio bipartisan (Salvini stesso ha additato la legge contro l’antisemitismo al varo da parte del nuovo Governo austriaco, appena insediato dopo elezioni anticipate).

Ora, invece, la “commissione Segre” sembra sparita dai radar di Palazzo Madama, mentre il fascicolo viene apparentemente imbracciato dal governo Conte 2. Il quale – certamente – ha il disegno di legge come strumento principale di azione sul terreno delle riforme: anche se non appare sicuramente neutro il possibile “trasformismo” di una battaglia civile in Parlamento in atto di governo. In concreto: in luogo di un confronto politico-culturale ampio e aperto nella sede istituzionale della sovranità democratica, il Governo predisporrebbe nelle sue stanze quello che il titolo della lettera di Martella non mostra timore di definire “un codice politico” sul linguaggio, soprattutto su quello dell’informazione.

Nel merito pare già di poter obiettare che un “codice politico” sul tema esiste già da 72 anni: è l’articolo 21 della Costituzione repubblicana, di cui evidentemente è necessario riproporre il testo integrale, mai abolito o modificato:

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

Nessun atto avente forza di legge in Italia può contrastare con i principi costituzionali e da 65 anni un’apposita Consulta è chiamata a vigilare quotidianamente su violazioni e forzature.

Un Governo può certamente procedere anche per decreto legge in caso di interventi di evidente urgenza. Lo ha fatto due mesi fa il presidente Usa Donald Trump, proprio sul terreno dell’antisemitismo. La Casa Bianca ha emesso un executive order dopo una serie di aggressioni a sfondo antisemita a New York. L’amministrazione Trump si è rifatta al Civil Right Act (una legge virtualmente di livello costituzionale, ispirata negli anni 60 da Martin Luther King) per imporre come sanzione il taglio dei contributi federali alle università che non realizzino misure di pieno contrasto all’antisemitismo e all’antisionismo (“odio” specifico verso lo Stato di Israele). Il provvedimento è stato oggetto di critiche molto vivaci: principalmente da media e atenei di orientamento liberal e progressista; anche dall’interno della comunità israelita statunitense. E l’argomento-cardine delle proteste è stato il conflitto fra le nuove norme di contrasto all’hate speech e il principio costituzionale del free speech, adottato dal Primo Emendamento nel 1791.

Toni e contenuti delle critiche hanno ricordato quelli utilizzati recentemente da molti media italiani per contestare ogni ipotesi di “bavaglio” all’utilizzo giornalistico delle intercettazioni giudiziarie. In prima fila in questa campagna c’era anche il quotidiano che ieri è sembrato caldeggiare un “codice politico” per l’informazione. Deciso fra Palazzo Chigi e il Viminale. Dove, peraltro, in anni non lontanissimi ha operato già a lungo un efficiente “presidio” sulla stampa nazionale e sui suoi “linguaggi”. Era un ufficio che produceva a getto continuo veline e sussidi all’editoria, censure e prebende. Avveniva comunque prima del passaggio alla democrazia costituzionale. Studiosi e media concordano nel definire quella dell’epoca “stampa di regime”.