Caro direttore,
l’intervento di Mauro Magatti sul proliferare del nazionalismo religioso nel mondo offre numerosi e notevoli spunti di riflessione.

Il primo senz’altro è lo sforzo di articolare in tempo reale una lettura culturale di un fenomeno bollente e magmatico. La legislazione sulla cittadinanza varata in India dal presidente Modi – con effetti sostanzialmente discriminatori per le minoranze non induiste, anzitutto musulmane – sta agitando ancora in questi giorni le piazze della più popolosa democrazia del globo. E la stessa avanzata delle chiese evangeliche (Magatti addita il collateralismo di quelle brasiliane alla presidenza Bolsonaro) è un trend di portata planetaria: basta guardare, a undici mesi dalle presidenziali americane, alle constituency elettorali di Donald Trump e – non da ultimo – alla saldatura fra movimenti evangelici e comunità israelite sostenitrici del sionismo “forte” – a sfondo religioso – elaborato dalla decennale premiership di Bibi Netanyahu. Nel contempo il gigantesco laboratorio della Cina post-maoista vede convivere la rinascita del confucianesimo e la persecuzione degli uiguri islamici.



Quanto all’Europa, Magatti elenca con puntualità il sostegno della Chiesa ortodossa alla “democratura” di Putin e “le spinte di intensità diversa” registrabili in Polonia e Ungheria, in Spagna con Vox, in Francia con il Rassemblement National e in Italia con la Lega. Ai confini con l’Asia, anche la Turchia ha conosciuto una brusca islamizzazione, tutt’altro che marginale per l’Europa del ventunesimo secolo.



Utilizzando l’attrezzatura analitica della sociologia, Magatti non mostra difficoltà nel ricondurre il ritorno del nazionalismo religioso al “fallimento del progetto cosmopolita” e quindi alla crisi della globalizzazione. Cadute le ideologie ed entrati in azione a tutto campo gli spirits del liberismo economico, moltissimi abitanti del pianeta si sono ritrovati esclusi e non più inclusi; privi di risorse materiali ma anche di identità. E hanno preso anzitutto a cercare nuove “risposte simboliche”: alimentando neo-nazionalismi assieme a complesse e controverse riscoperte di radici religiose.



È una dinamica vasta e profonda – avverte il sociologo della Cattolica – che mette a serio rischio anche il progress unificativo della “casa europea”. Il progetto di Unione Europea – in corso da oltre 60 anni a cavallo fra il secolo ventesimo e il ventunesimo – è nato sulle ceneri ultime di una tragica parabola secolare di guerre di religione e guerre nazionalistiche. È anche per questa pesante ipoteca storica che – Magatti lo annota acutamente – la Ue ha preso a soffrire di eccessi tecnocratici, entrando “in impasse a causa dell’incapacità di fare i conti con la propria storia politica e religiosa”. Ma è a questo incrocio della storia che a guidare la Chiesa cattolica – che ha in Europa la sua Santa Sede – è giunto un Papa non europeo come Francesco. Il quale ha lanciato – non solo all’Europa, ma anzitutto all’Europa – una sfida di impegno pari al rischio, peraltro senza alternative visibili.

Il Papa, secondo Magatti, propone anzitutto la Chiesa e il suo magistero come grande “riserva di senso” contro ogni “spinta disumanizzante”. La sua è una religione cattolica attenta a essere “autorevole” in quanto sempre capace di stabilire “corrispondenze fra parole e azioni”: sempre pronta a guardare in faccia ogni sorta di tentazione-fake.

Il secondo drive del papato di Francesco è l’aperta e consapevole contraddizione verso ogni “fondamentalismo religioso”: contro l’idea che in un mondo fattosi piccolo le religioni non abbiano altra scelta che “spartirsi il pianeta in zone d’influenza nazionale”.  E questo vale per l’Europa – nella quale la sfida dell’unificazione non riguarda solo i “vecchi” Stati nazionali, ma anche “le tessere della fede cristiana che nel tempo si sono separate nelle diverse confessioni”. E se “le singole chiese non ce la possono fare” nel Vecchio Continente, anche a livello globale si profila e impone un “ripensamento” per tutte le grandi fedi della “famiglia umana”: a cominciare dallo stesso “universalismo cristiano”.

L’invito forte di Francesco punta quindi a “un equilibrio (seppur difficilissimo) fra identità e interdipendenza”: un compito che il Papa “assegna alla sua Chiesa e, mediante essa, all’Europa tutta”. Se “il futuro dell’Europa passa dalla capacità di delineare una propria identità” ed “ è indisponibile la via nazionalista basata sul fondamentalismo religioso” allora “è ancora una volta la vitalità del dialogo fra la sfera secolare e quella religiosa – vera “radice” del Vecchio Continente – a costituire la risorsa essenziale per affrontare il cambiamento d’epoca”.

“Francesco sta facendo la sua parte. C’è da augurarsi che altri – dentro e fuori la Chiesa – lo seguano”. La riflessione di Magatti ha un finale aperto, per molti versi interrogativo. È tuttavia impossibile pensare che non guardi – fra l’altro – all’appuntamento italiano promosso dal Papa fra poche settimane ad Assisi: perché soprattutto i giovani elaborino nella modernità corrente “The Economy of Francesco”.

In quei giorni del prossimo marzo si deciderà probabilmente anche il futuro dell’ipotesi che in Italia (ri)nasca una forza politica “dei cattolici”. Un partito – per usare alcune parole-chiave di Magatti – se vedrà la luce affronterà certamente la sfida di “un equilibrio pur difficilissimo” fra “identità” e “interdipendenza”, sulle tracce del “dialogo” aperte dal Concilio Vaticano II. Anche l’intento di contrastare il “nazionalismo religioso” in nome di un “nuovo umanesimo” corre infatti di per sé il rischio di derive fondamentaliste, di rimbalzi contro-ideologici, di cortocircuiti strumentali: in direzione contraria alla ricerca di un autentico dialogo e di un confronto reale fra religione e società, economia, politica.