Caro Direttore,

i media italiani hanno giustamente dedicato ampio risalto all’attentato antisemita di Monsey. Se l’odio antisemita va in drammatica escalation nella grande metropoli che ospita la più importante comunità ebraica al mondo fuori da Israele, l’emergenza oltrepassa i confini di New York e degli Stati Uniti.



Le aggressioni antisemite che hanno segnato tragicamente le celebrazioni di Hanukkah – la “Festa delle Lampade” – nella Grande Mela hanno avuto inizio nei primi giorni di dicembre a Jersey City, appena oltre il fiume Hudson. In una sparatoria presso un negozio di alimentari kosher sono morte in tutto sei persone, fra le quali i due assalitori. Questi ultimi, entrambi afroamericani, sono risultati vicini ai Black Hebrew Israelites. Si tratta di un controverso movimento religioso nato a metà ‘800 negli Usa, con la pretesa che nella comunità afroamericana vadano ricercate le origini più lontane e profonde dell’ebraismo. I Black Hebrew – che associano dottrine e pratiche provenienti sia dall’ebraismo che dall’evangelismo – non sono mai stati riconosciuti dalle autorità religiose ebraiche e dallo Stato d’Israele: anche per la posizione di una minoranza che contesta – da tempo e con toni violenti – l’ebraismo “bianco”. Una piccola comunità black – di cui è nota l’impronta nazionalista – è tuttavia radicata da decenni nel deserto del Negev; e i giovani residenti servono nell’esercito israeliano.



In risposta immediata al grave incidente di Jersey City, già l’11 dicembre scorso il presidente Donald Trump ha emesso un executive order contenente misure di contrasto al linguaggio antisemita. Il decreto è stato annunciato alla Casa Bianca appositamente durante un ricevimento per Hanukkah, alla presenza di numerosi leader religiosi e laici della comunità israelita americana. All’evento hanno partecipato anche la figlia e il genero Trump, Jared Kushner e la moglie Ivanka Yael, entrambi consiglieri speciali del presidente.

Il provvedimento intende principalmente combattere ogni manifestazione di antisemitismo nei campus universitari. Questi, sulla base dell’order, sono a rischio di sospensione dei finanziamenti federali da parte del Department of Education in caso di tolleranza di uso di linguaggi antisemiti o di “movimenti anti-israeliani”, anzitutto nella promozione del boicottaggio di prodotti o di disinvestimenti mirati. Il provvedimento va a tutelare il “giudaismo” sul piano etnico e si riconnette al Civil Right Act del 1964: quello originato dalla celebre marcia guidata da Martin Luther King a Washington nell’agosto 1963; e siglato infine dal presidente democratico Lyndon Johnson dopo l’assassinio di John Kennedy.



L’offensiva di Trump contro l’antisemitismo è giunta subito “benvenuta” presso l’American Jewish Committee e le principali organizzazioni di rappresentanza e tutela della vasta comunità ebraica statunitense. Tuttavia è stata oggetto anche di forti critiche, a cominciare da quelle giunte dai settori progressisti dell’ebraismo americano. Per primo il New York Times, voce del tradizionale ebraismo liberal newyorchese, ha raccolto le preoccupazioni degli studenti universitari, in allerta per i possibili limiti al free speech, baluardo costituzionale della civiltà americana. Ma anche nei campus californiani sono stati alcuni docenti israeliti a esprimere a caldo una netta contrarietà all’iniziativa di Trump.

Due nodi politico-culturali sono emersi come critici. Il primo è una nuova spinta all’omologazione dell’“antisemitismo” – a sfondo religioso e razziale, a diretta offesa della memoria dell’Olocausto – alle attività “anti-israeliane”, frontiera delicata di natura più politico-diplomatica. Un secondo spunto problematico è stato offerto dalla convergenza sul decreto del favore di ampi settori comunità evangeliche, roccaforti elettorali del partito repubblicano e di Trump in particolare.

Il cosiddetto “sionismo cristiano” è in effetti un fenomeno che ha preso molta forza negli Stati Uniti. Tanto che, non più tardi di due anni fa, il premier israeliano Bibi Netanyahu ha voluto intervenire in video-conferenza a un evento di Christian United for Israel, un’organizzazione che dichiara sette milioni di aderenti per “difendere Israele e combattere l’antisemitismo nelle comunità, sui media, nelle università e nella nostra capitale”. In quell’occasione Netanyahu – che il Likud ha appena ricandidato per le nuove elezioni anticipate a Gerusalemme – ha detto ai leader evangelici riuniti a Washington: “L’America non ha miglior amico di Israele e Israele non ha miglior amico dell’America. E in America Israele non ha miglior amico di voi”. Il supporto degli evangelici alla comunità ebraica più vicina ai repubblicani e a Trump è stato visibile in due concessioni-chiave della Casa Bianca al Governo israeliano sul terreno della sicurezza dello Stato ebraico in Medio Oriente: il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme; e la recentissima dichiarazione di “non illegalità” degli insediamenti dei coloni nei territori palestinesi.