Caro direttore,
ho letto con molto interesse l’intervento del professor Vittadini su le nuove sfide del welfare italiano, nel quale, tra l’altro, ha sottolineato che “lo stato sociale ha bisogno di un deciso rinnovamento per poter rispondere a bisogni nuovi e vecchi, in radicale trasformazione”. Esigenza da sottoscrivere interamente.
In questo lavoro di “rinnovamento”, che la politica dovrebbe intraprendere con una certa urgenza (i tempi, infatti, urgono), occorrerebbe, a mio parere, partire da un cambiamento culturale di 180 gradi, che tenga conto del contributo che può essere dato non solo dalla mano pubblica, ma anche dalla presenza di base (chiamarla “privata” sarebbe riduttivo) che esiste nella realtà, ma che spesso il tarlo statalista non riesce neppure a vedere. E faccio un esempio.
Almeno nel nostro Paese, un contributo essenziale al welfare generale viene dato, nel silenzio generale, da quella “categoria” (parola sbagliata che uso solo per problemi di spazio) che genera molta “tenerezza” e produce molte “pacche sulle spalle”, ma che non viene mai considerata seriamente né dal punto di vista culturale, né, tanto meno, dal punto di vista politico. Sto parlando dei nonni e delle nonne (sono 12 milioni in Italia, di cui il 70% autosufficienti), i quali, gratuitamente e quotidianamente, aiutano figli e nipoti sia con “servizi”, sia, in misura sempre maggiore, con contributi economici, che sottraggono ai propri stipendi o alle proprie pensioni.
Tutti sanno che ciò avviene, ma nessuno lo prende in seria considerazione. Tutti sanno che molte famiglie riescono a lavorare (e anche a divertirsi) solo perché i nonni tengono con sé i nipoti, li vanno a portare e riprendere a scuola, li aiutano a studiare e a fare sport e così via. Si tratta di un’immensa attività che, se dovessimo tradurla in valore orario, ci porterebbe a cifre degne di una qualsiasi manovra finanziaria del nostro Paese.
Ma allora, quando si affronta il tema del welfare non si può non tenere conto di questa realtà, trovando il modo, magari, per preoccuparsi che questo fenomeno, così decisivo, non abbia a rallentare. Allora, sarebbe essenziale pensare anche a sostegni che facciano in modo che questa attività familiare di welfare possa continuare, sia per la sua utilità economica, sia per l’apporto umano che i nonni danno al welfare, il quale, come sottolinea Vittadini, ha bisogno di essere aiutato non solo da apporti economici, ma anche da “una visione di governance complessiva” che tenga conto che “non di solo pane vive l’uomo”.
Infatti, l’attività sussidiaria di welfare dei nonni pone, senza se e senza ma, al centro dei propri interventi proprio l’attenzione alla singola persona del figlio e del nipote, risponde con immediatezza (e senza bisogno di convegni) ai “bisogni nuovi e vecchi”, realizza concretamente “una vera integrazione sociale e una partecipazione attiva alla vita comunitaria”. Infatti, dove la presenza dei nonni è assidua e frequente, i nipoti vivono meglio, sia verso se stessi, sia nei rapporti con l’intera società.
Sarebbe anche ora che lo Stato desse un riconoscimento agli aiuti economici che i nonni danno ai propri figli. Noi auspichiamo che la prossima finanziaria preveda la detrazione fiscale degli oneri, seriamente comprovati, sopportati dai nonni a favore dei nipoti, in analogia con quanto, in linea di principio, avviene per i genitori. In questo senso questa piccola riforma non comporterebbe alcuna spesa ulteriore, ma affermerebbe un sacrosanto principio, prendendo atto, tra l’altro, di una situazione di fatto presente in modo massiccio.
L’esempio relativo ai nonni mette in risalto come, quando si parla di welfare, non ci si può limitare a riferirsi solo e sempre a quello “pubblico”, ma occorre tenere presente tutto ciò che esiste e vive nella nostra società (ed è più di quanto non si pensi di solito). Forse, occorrerebbe far fare un passo indietro alla concezione “statalista” che pervade un po’ tutta la politica.
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