Caro direttore,
sullo striscione, appeso alla cancellata, campeggia a chiare lettere una scritta a caratteri cubitali: “Non vi libererete mai di noi”. Dietro il cancello si intravedono figure. All’esterno uomini in divisa.
È questa la fotografia scelta da gran parte dei media italiani per descrivere l’ultimo rave party svoltosi ad Assago, hinterland di Milano, nel weekend del 12-13 febbraio. Un fenomeno che si ripete in tutta Italia con cadenza settimanale, a cui i giornali dedicano più o meno spazio.
Tutte le analisi si possono in qualche modo, forse generalizzando un po’, ricondurre a 2-3 letture principali: da una parte la condanna della sistematica violazione delle proprietà private, terreni agricoli o edifici, unita allo sdegno per le condizioni in cui questi luoghi vengono lasciati dai ravers una volta finito tutto. Dall’altra l’attenzione al “fattore umano”: la denuncia per il consumo di droghe, per la sicurezza (e il disagio) delle persone che vivono nelle zone circostanti ma anche di quelle che partecipano. C’è chi si scandalizza per le condizioni degli animali che accompagnano i partecipanti e chi per la gestione, o la mancata gestione, da parte delle autorità.
Posizioni e giudizi tutti giustificati e necessari ma che marcano una distanza con i protagonisti del rave, che sanno di denuncia, di lamentela e recriminazione. C’è un “loro” e c’è un “noi”, insomma.
Emanuele Boffi la scorsa estate si domandava che fare con le migliaia di ragazzi che si “autodistruggono barcollando come zombie davanti ad amplificatori con la musica a palla” e sottolineava la necessità di un lavoro.
Ma quale lavoro?
Bisogna forse essere stati davanti a quelle casse alle prime ore dell’alba, quando il cielo inizia a schiarirsi e l’aria fresca del mattino asciuga il sudore del viso; bisogna aver incrociato lo sguardo del tuo vicino, ed essersi scambiati un tacito sorriso di assenso; bisogna aver percepito l’irripetibilità di quell’istante, fatto di condivisione e di ribellione verso un mondo che soffoca. Bisogna aver vissuto tutto questo per capire cosa muove migliaia di ragazzi per centinaia di chilometri ogni weekend.
No, in verità non bisogna, grazie a Dio.
E non è necessario nemmeno essersi imbottiti di alcol e droga, fino a perdere non solo la coscienza di sé, ma pure quella della propria dignità.
Però se si vuole capire queste persone, se si vuole avvicinarsi al loro cuore, bisogna fare uno sforzo: bisogna cioè scommettere sul fatto che “la soluzione dei problemi non avviene direttamente approfondendo i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta”, come in modo geniale intuì don Luigi Giussani. Perché forse all’origine del rave c’è qualcosa che non è solo droga, sballo, noncuranza. Forse chi ci va non lo fa solo perché “gli garba drogarsi”, come dichiarava un partecipante del famigerato raduno di agosto al lago di Mezzano; forse non sa neanche lui perché ci va. O forse invece è cosciente di un’aspirazione profonda, di un bisogno di appartenenza, di comunionalità, di libertà.
Una cosa è certa: di questi cuori non ci libereremo mai.
“Humani nihil a me alienum puto” sottolineava Publio Terenzio Afro ormai 2200 anni fa; non considero a me estraneo nulla di ciò che è umano. Forse bisogna partire da qui.
Fabrizio Fossati