“Universale e smisurata è la letizia che questo sacrosanto mistero della trionfale resurrezione del Salvatore nostro Signore Gesù ha recato a tutto il mondo. Una nuova luce si è sprigionata su ogni angolo della Terra e illumina con il suo splendore ogni cosa”.

È un vero e proprio inno di esaltazione della potenza trasformatrice della Pasqua l’esordio dell’omelia pronunciata dall’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo l’1 aprile del 1584, sotto le volte maestose del Duomo della città. Nessuno poteva prevedere, allora, che quella sarebbe stata l’ultima solennità del giorno di Pasqua celebrata dal santo pastore (1538-1584). Pronunciate in quel contesto, le sue parole acquistano per noi il significato di una sorta di testamento affidato alle future generazioni. Vi si riassumeva il senso di una lezione di vita sostenuta, oltre che dalla nobile architettura di un insegnamento fatto di precetti e dottrine, dalla forza persuasiva di una testimonianza che si imponeva attraendo.



Le parole non erano, comunque, sottovalutate in quanto veicolo fondamentale di comunicazione. Il carisma si esercitava anche attraverso l’uso sapiente delle risorse dell’oratoria sacra. Quelle sfruttate per la Pasqua del 1584 sono documentate dal testo della predica confluito, in versione latina, nella monumentale raccolta dei discorsi di san Carlo allestita pochi anni prima della metà del Settecento (Sancti Caroli Borromei Homiliae, a cura di Giuseppe Antonio Sassi, Milano 1747-1748, tomo IV, pp. 125-130), oggi comodamente consultabile nella riproduzione digitale offerta dal web.



Le battute iniziali del sermone ricalcano un ritmo serrato. Insistono sui toni del ribaltamento vittorioso, non a caso ribadito anche nella successiva omelia del lunedì dell’Angelo: “Glorioso è il trionfo, dilettissimi figli, con cui nel giorno di ieri il Salvatore nostro Signore Gesù si destò dal suo sepolcro”. Nella scia di un registro altamente celebrativo, già il giorno di Pasqua san Carlo aveva voluto chiarire in che senso la “letizia” della resurrezione era da intendere come un prodigio di estensione generalizzata, di portata cosmica, allargata alla storia globale del mondo. La festa era trionfale perché riuniva prima di tutto gli angeli, assiepati in volo intorno al “sacratissimo sepolcro”, svuotato del corpo divino che aveva custodito. Ma la celebrano anche gli “apostoli santissimi”, sciolti dal “così acerbo dolore per la morte del loro maestro”. La celebrano le “piissime Marie”, confortate dalle molteplici apparizioni degli angeli stessi e del Salvatore in prima persona. Vi corrispondono dalle “viscere della Terra” i “santi Padri”, a cominciare da Abramo, finalmente vicini al compimento di una attesa rimasta per secoli insoddisfatta, mossi da un “gaudio incomprensibile” per noi comuni esseri umani, di intensità spinta fino al massimo grado.



Se universale è la festa fatta esplodere dall’evento della Pasqua, universale (cioè totale, senza paragoni con niente altro) è la gioia che ne viene vista fluire. Il corpo centrale dell’omelia è un’apologia di questa letizia insuperabile introdotta dalla resurrezione dell’Uomo-Dio, riscattato dalla prigione del male e della morte. Si tratta però di una gioia da accostare in una prospettiva di autenticità, spiega il santo arcivescovo milanese: perché bisogna risalire fino alla “vera gioia”, alla “sincera e legittima letizia di questo giorno” tutto speciale, sollevandosi al di sopra di un senso di liberazione ridotto ai suoi contorni più superficiali e senza radici. Per molti, ammoniva san Carlo rivolgendosi ai fedeli del suo tempo, la gioia della Pasqua si fermava alla fuoriuscita dal clima penitenziale della Quaresima, con il suo regime severo di rinunce e divieti, gravato dal peso della confessione dei peccati e ora sostituito dal ritorno a una rilassatezza dei costumi denunciata come pericolosa tentazione diabolica.

La “vera letizia” a cui si viene invitati a guardare tocca, invece, la sostanza dell’essere. Ha intimamente a che fare con la fede e la speranza. È una “duplice letizia” quella innescata dal trionfo di Cristo risorto: riguarda, allo stesso tempo, “l’anima e il corpo”, “lo spirito e la carne”. Perché c’entrano anche il corpo e la carne? Dove sta questo fondamento umano che abbraccia le esigenze più profonde e decisive dell’essere vivente?

Si saldano, qui, il terrestre e l’eterno, la storia che scorre e il soprannaturale: la “beata speranza infiammata da questo mistero nei nostri cuori” ci proietta verso la possibilità di condividere, nella pienezza della vita che si prolunga in forme nuove oltre la morte, la stessa “immensa gloria di Cristo Signore, alla quale oggi Egli è stato innalzato”. E questa promessa di un futuro approdo positivo non può non riflettersi in una impostazione nuova dell’esistenza, ancorata a una certezza che diventa solidamente sperimentabile, innestata nell’appagamento ultimo della persona intesa come un tutto unitario.

Il realismo di una visione che non ignora la drammaticità del male e la fragilità del nostro essere semplici creature finite si apre così alla densa concretezza oggettiva della conquista di un bene agognato. Passa attraverso un transito di cambiamento e di resurrezione, che ricalca le orme stesse del destino di Cristo. La sua logica si sintetizza nella felice apologia della gioia cristiana racchiusa nel capitolo quarto della lettera ai Filippesi: “Siate lieti – dice l’Apostolo ‒ ve lo ripeto, siate lieti”. L’omelia della Pasqua del 1584 rilancia questo messaggio vibrante, che è il refrain più classicamente tradizionale del vero ottimismo cristiano. Ma per san Paolo, come san Carlo che lo ripropone alla lettera, questo gaudere può riposare solo sul vincolo di amore che lega il vero credente al suo Signore (“in Domino semper”). Dentro questa relazione a tu per tu, anche la condotta esteriore, lo stile della vita, alla lunga chiedono di essere rigenerati per diventare più trasparenti. La “modestia”, di cui parla sempre san Paolo, cioè la semplicità, la sobria essenzialità, l’attenzione ai bisogni di chi ci circonda, possono diventare il “sale”, il “celeste decoro” di ogni gesto compiuto, dando continuità alla gioia che si ridesta, pur dentro l’orrore dei misfatti reiterati sulla scena dolorosa del mondo, nel giorno supremo di festa per tutta la “Santa Madre Chiesa”.

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