Quinto Ennio, nativo di Rudiae, nel Salento, scrisse un poema didascalico sulla cucina, per parodiare un poemetto, al tempo molto famoso, del greco Archestrato di Gela. Abbiamo solo pochi frammenti e un titolo estremamente evocativo e uguale per entrambe le opere: Hedyphagetica, tradotto, un po’ alla buona, potrebbe suonare come “Il mangiar bene”.
Ai Romani, come a noi italiani, piace appunto mangiar bene, data la ricchezza e varietà regionale dello Stivale; e prova di questo mos italicus è il successo, quasi un best-seller, che sta riscuotendo l’ultimo libro di Silvia Stucchi, docente di liceo e professoressa a contratto presso l’Università Cattolica di Milano: A cena con Nerone. Viaggio nella cucina dell’antica Roma (Ares, 2021).
Forse, quando si parla di cibo e ricette di Roma antica, il libro più famoso è il De re coquinaria, il manuale di cucina, o “ricettario” in dieci libri, di Apicio, di cui poco sappiamo. Qualcuno potrebbe provare, quasi emulando i concorrenti di un famoso reality come Masterchef, a cucinare qualche pietanza descritta nel libro apiciano, ma il risultato sarebbe poco lusinghiero, nonostante l’impegno profuso: o mancano alcuni ingredienti, in quanto non meglio identificabili, oppure perché i nostri gusti moderni sono diversi da quelli degli antichi. Un esempio su tutti è la salsa “garum”, di cui i Romani erano ghiottissimi, come per noi il ketchup o la maionese, se è lecito fare questo paragone anacronistico. Si veda il capitolo a esso dedicato nel saggio della Stucchi.
Ma il cibo non è solo ciò di cui l’uomo ha bisogno per nutrire il corpo come benzina per la macchina, è anche creatore di occasioni e contesti che si esplicano a livello sociale, culturale, politico, tanto da creare una categoria multiforme denominata “convivialità”. La scelta del titolo del volume è ben motivata dalla Stucchi nella prefazione: “Quanto al titolo di questo libro, perché A cena con Nerone? In effetti, Nerone non è stato particolarmente famoso come gourmet, e neppure ci sono state tramandate sue stravaganze nel campo dell’alimentazione, cosa che è invece accaduta per altri imperatori, quali Vitellio o Eliogabalo. E certo, come vedremo, essere invitati a cena da Nerone o da sua madre Agrippina doveva procurare più di un brivido, considerata la disinvoltura di questi personaggi nell’uso del veleno. Così, se sedendo alla tavola di Trimalchione avremmo dovuto munirci di bicarbonato, per sederci a quella di Nerone avremmo avuto necessità almeno di un antidoto. Tuttavia, quale imperatore più di Nerone – la cui riabilitazione in sede storica e critica è ormai un dato comune – è diventato evocativo di una certa idea di fasto, lusso, ricercatezza e abbondanza?”.
Tutti ricordiamo le scene del celebre film di Fellini, Satyricon, tratto dal romanzo di Petronio, giudice di eleganza, secondo la definizione tacitiana: durante la cena luculliana e baroccamente allestita di Trimalchione, liberto parvenu arricchito ma ignorante, cialtrone e volgare, Eumolpo, sbronzo insieme agli altri commensali, offende il padrone di casa, che si era vantato di essere poeta e intellettuale, e così viene catturato e torturato. Nel suo libro la Stucchi, da consumata narratrice-studiosa, è abile nel tessere una rapsodia di erudizione leggera – quasi callimachea – con l’avvincente racconto di ciò che avveniva durante i pasti dei Romani: le fonti storiche e letterarie sono usate per trasportare il lettore, come un invitato al banchetto, in un aspetto della civiltà materiale del mondo antico, senza perdere il ritmo dello storytelling. Viene sempre spiegato il contesto del passo menzionato.
Facciamo un esempio per mostrare la vivacità affabulatoria, di quando la Stucchi sta analizzando la prima egloga virgiliana, i cui protagonisti, come ricordiamo ai tempi del liceo, sono i pastori Titiro e Melibeo: “Ancora una volta, il poeta (Virgilio) non è interessato (ovviamente!) al menu in sé di questa parca cena campestre, che, peraltro, Melibeo non godrà, ma al valore intimo e, oserei dire, simbolico connesso a questa offerta. Viene in mente, per associazione – e contrapposizione – d’idee, la modesta cena che Renzo consuma, nella parte finale del capitolo XXXIII dei Promessi sposi, una volta tornato al paese dopo essere guarito dalla peste. L’amico che riconosce Renzo è volutamente anonimo, e non sapremo mai il suo nome; egli, rimasto solo (perché, evidentemente, tutta la sua famiglia è stata sterminata dall’epidemia), offre a Renzo quel poco di cui dispone: Tornò con un piccol secchio di latte, con un po’ di carne secca, con un paio di raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla tafferìa, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l’uno della visita, l’altro del ricevimento”.
Insomma, il lettore è portato in questa banchetto bandito dalla letteratura latina in cui sono serviti, per continuare l’immagine conviviale, succulenti digressioni con la letteratura italiana dei classici, ma non solo! E poi ci sono venature di ironia che alleggeriscono un libro che è anche basato sullo studio serio delle fonti; per esempio, tra tutte le chicche, il commento della cena cannibale di Tieste: “Insomma, il dottor Hannibal Lecter non ha proprio inventato nulla!”.
Ce n’è per tutti i gusti in questo libro, veramente godibile per il lettore non esperto (tutti i passi sono tradotti in italiano corrente); e può essere indicato anche per i docenti di latino in percorsi specifici per conoscere meglio il mondo romano.
Mi è rimasto in mente un passo di una lettera di Cicerone citata dalla Stucchi, quando il grande oratore e politico ricorda di essere diventato un appassionato di buona cucina solo recentemente: “Dunque preparati: hai a che fare con una buona forchetta, e con uno che ormai ne capisce qualcosa; e tu sai quanto tendano all’eccesso gli intenditori tardivi. Devi scordarti i tuoi piatti freddi, le tue focaccine. Io, ormai, ho una tale padronanza dell’arte culinaria che oso invitare piuttosto spesso il tuo amico Verrio e Camillo (che persone raffinate! ed eleganti!)”.
Il libro della Stucchi, dunque, è per “buone forchette”, mentre i più arditi potranno provare a cucinare qualche manicaretto di cui viene data la ricetta, una tantum, senza fare però indigestione.
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