Sabato scorso a Roma è andato in scena uno spettacolo ispirato al mito di Clitemnestra. Sappiamo tutti quanto il teatro greco esprima in modo sommo i drammi e le domande più profonde del cuore umano. In “Clitemnestra” c’è il tema universale della giustizia, della vendetta, del destino. Lei, destinata all’infelicità, uccide il marito Agamennone, che con l’inganno aveva sacrificato la figlia Ifigenia per propiziarsi il favore degli dei nella sua guerra contro Troia. È un personaggio femminile fortissimo. Molto attuale è anche il tema di cosa si possa sacrificare in nome di una vittoria in guerra. 



L’aspetto interessante è che questo “Clitemnestra” è scritto da Luciano Violante, già in passato autore di una originale “Medea”. Ora, che un potente della prima Repubblica scriva di teatro è già una notizia. Che poi sia un ex magistrato in prima linea contro la mafia ma anche contro certi avversari politici a riflettere sui grandi temi della giustizia è un’altra notizia, sicuramente buona.



Nel monologo recitato da Viola Graziosi ci sono momenti poeticamente intensi, anche quando l’opera vira verso la attualizzazione, operazione sempre pericolosa. Ad esempio, portando in scena un altro ribelle al Destino, il capitano Acab. Ma è anche vero che ci si alza con l’inquietudine di una mancanza. 

Alla bella chiesa medievale sconsacrata di San Nicola, in cui si è svolta la rappresentazione, manca il tetto, come la più nota San Galgano. E alla domanda se la vendetta di Clitemnestra (“lama per lama”) sia delitto o giustizia manca la parola nuova che Micene non poteva conoscere e che ha cambiato la storia, anche del diritto: il perdono. 



Infine, è degno di nota anche il fatto che l’opera di Violante sia prodotta dal Teatro Stabile d’Abruzzo, il cui presidente è Pietrangelo Buttafuoco. Una specie di compromesso storico culturale, che conferma che il vero dialogo tra le diverse anime della nostra società può avvenire solo riportando al centro le questioni radicali della natura umana, proprio quelle che il chiacchiericcio della “cancel culture” costringe a mettere da parte.

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