“Più per vergogna che per vera vocazione – lo ammetto – mi indussi a cercar rifugio nell’ombra del chiostro” (Historia cit.). La regale abbazia di Saint-Denis, allora appena fuori Parigi, accoglie Pietro Abelardo. Adam (forse parente di Etienne de Garlande) vi è il magnifico abate, salito agli onori della fama per aver fatto incontrare chez lui papa Pasquale II e re Filippo I, per aver partecipato al Concilio Lateranense del 1112 (quello sulle investiture) e per aver fatto dello scriptorium di Saint-Denis il centro della storiografia del regno di Francia. Abelardo vi prende i voti monastici nel 1118, poi il sacerdozio: ma presto si accorge della “dissolutezza e dell’infamia” di tutti i monaci compreso l’abate, che rapido invia lo scomodo e loquace novizio nella dépendence di Maisoncelle. Abelardo le preferisce il piccolo convento di Saint-Ayoul, nei pressi di Provins, nell’Île-de-France. Qui scriverà la Dialectica, il Commento ad Ezechiele e soprattutto quel De unitate et trinitate Dei che gli sta specialmente a cuore e che ottiene subito un successo eccezionale, nonché la furibonda sollevazione dei teologi d’Europa: Roscellino gli scrive in articulo mortis una lettera ricolma d’odio e di calunnie (Pierre intratterrebbe ancora rapporti carnali con Héloise, ma per denaro); i due successori di Anselmo di Laon (e già condiscepoli di Abelardo), ossia Alberico di Reims e Lotulfo Lombardo, armano la mano dell’arcivescovo di Reims Radulfo e ottengono che sia convocato a Soissons nel febbraio del 1121, “una specie di assemblea, facendola passare per concilio” (Historia cit.). È in realtà un sinodo locale, presieduto dal potente cardinale di Preneste, Kuno di Urach, legato pontificio in Francia.



Abelardo viene condannato a bruciare con le proprie mani il De unitate (di cui peraltro già esistevano non poche copie), a recitare pubblicamente il Credo di Atanasio e alla reclusione perpetua nella vicina abbazia di Saint-Médard. Kuno di Urach, dubbioso per la frettolosa severità delle condanne, pochi giorni dopo si dichiara profondamente pentito d’averle sottoscritte ed ex auctoritate Sanctae Romanae Ecclesiae libera Abelardo da ogni pena. Un breve, agitato passaggio a Saint-Denis è solo una tappa per il ritorno a Provins. Dove lo raggiungono la protezione del conte Théobald de Champagne, quella del vescovo di Meaux e la bienveillance dello stesso re Louis VI.



Sceglie allora, sperando in una qualche fine delle persecuzioni, di ritirarsi ancor più lontano e ancor più in solitudine. Va nei pressi di Troyes, a Quincey (ora Nogent-sur-Seine) e vi costruisce prima un piccolo, rustico oratorio dedicato alla Santa Trinità. La fama se ne spande per tutte le Gallie: studenti, e discepoli vecchi e nuovi accorrono sempre più numerosi e per gratitudine egli cambia il nome di quello che ormai è un monastero in “Paraclet”, omaggio allo Spirito Santo, avvocato e consolatore. E qui scrive la Theologia christiana, il Commento all’Epistola ai Romani, il trattato Sic et non soprattutto, ove le apparenti contraddizioni della Scrittura vengono spiegate e risolte con l’acribia storicistica di un moderno esegeta.



Un possente partito d’opposizione va tuttavia formandosi: “Ogni volta che venivo a sapere che da qualche parte si riuniva un’assemblea di uomini del clero, credevo si tenesse per condannare me” (Historia cit.) Tanto più che tra i suoi avversari si fanno largo i nomi temibili di Bernardo di Clairvaux e di Norberto di Clèves, cui si unirà presto Guglielmo di Saint-Thierry. Abelardo, scartata a malincuore l’idea di rifugiarsi in Andalusia, accetta un abbaziato in Bretagna, a Saint-Gildas de Rhuys. Qui apprenderà verso il 1129 che Héloise e le sue monache hanno dovuto lasciare Argenteuil, reclamata da Saint-Denis: il suo pensiero corre subito al Paraclet, da tempo abbandonato e ne fa dono alla sua “sposa e sorella”, correndo a Morigny, ove papa Innocenzo II passa al ritorno dal complesso viaggio che, grazie al re Louis VI e ai vescovi francesi, l’aveva confermato unico papa legittimo. Abelardo ne ottiene una bolla che il 28 novembre 1131 ratifica la donazione. Héloise sarà al Paraclet una badessa che farà parlare di sé per la sapienza dell’autorità, la dolcezza della maternità, la bellezza indiscussa dei suoi scritti. Abelardo vi si recherà spesso, almeno fino al 1132, pur continuando quella che Étienne Gilson chiamerà “la carriera tumultuosa che la fatalità del suo genio non cessò d’inventare per lui”.

Rientrato a Parigi, dopo gli anni difficilissimi della cupa e ostile Saint-Gildas e nuovamente a Sainte-Geneviève, verso il 1134 maître Pierre scrive una sorta di propria autobiografia in forma di lettera ad un amico: è l’Historia calamitatum mearum. Narrazione, spietata verso di sé e verso gli altri, d’una vita percorsa da due irriducibili aneliti: la sapienza e la verità, strenuamente coniugate alla luce d’una fede senza ombre; l’amore per Eloisa, carnale e passionale all’inizio, poi sublimato da una coscienza etica a fatica ritrovata ed ora limpidissima. Eloisa ne viene a conoscenza e gli scrive, con quell’incipit riportato all’inizio del nostro studio e poi con parole singolari: “Poco fa, per puro caso, mi è capitata fra le mani la lettera pietosa e compassionevole che avete scritto ad un amico. […] Era piena di fiele e di assenzio, né, forse, poteva essere diversamente, dal momento che non vi si narra  altro che l’infelice storia e le sofferenze che quotidianamente ti travagliano, mio unico bene”. È una lettera appassionata, debordante di memorie incancellabili, di sensi non sopiti, d’attese tormentose. È l’inizio di un Epistolario di tredici lettere dell’una e dell’altro di mirabile altezza umana, intellettuale, poetica. E tale da diffondersi prestissimo, da diventare l’icona di ogni histoire amoureuse, da meritare le note a margine di Francesco Petrarca, da essere (come ben ha scritto Pierfranco Bruni) il prius segreto del V Canto dell’Inferno di Dante. E da ispirare letteratura, pittura, teatro cinema, musica sino ai nostri giorni.

A lungo messa in discussione, l’autenticità dell’Epistolario è oggi per tutti pacifica. Pensiamo piuttosto che né l’Historia calamitatum, né le lettere avessero un carattere meramente “privato”: una valenza “pubblica” vi è imprescindibile, un intento “editoriale” ante litteram non sfugge ad una lettura attenta. Quegli eventi meravigliosi e terribili che entrambi avevano vissuto dovevano esser noti al mondo, dovevano farsi carne e spirito universali. L’ultima lettera è di Abelardo a Eloisa, che gli ha chiesto un commento ai primi versi di Genesi e al Cantico dei cantici: “Tu ora mi preghi, o sorella Eloisa, a me cara un tempo nel mondo, adesso carissima in Cristo, di scrivere un commento su questi passi delle Sacre Scritture […] Sappiate comunque che io intraprendo questo lavoro solo dietro vostra richiesta e per effetto delle vostre preghiere. Se mi vedrete soccombere, non stupitevi”…

La tempesta infatti sempre più si addensa su maître Pierre: dopo il successo di una serie di opere a carattere didattico (Solutiones, Sermones, Scholarium theologia etc.) e dell’Hymnarius dedicato a Eloisa e alle suore del Paraclet, Guglielmo di Saint-Thierry individua nell’opus abelardianum tredici proposizioni eretiche. E Bernardo di Clairvaux lancia una furibonda crociata contro di lui, cercando di colpire chiunque appartenga – per scuola o per amicizia – alla sua scuola, chierici o laici, borghesi o nobili che siano. Un primo incontro fra i due si rivela uno scontro. Alla fraternalis admonitio, e poi all’evangelica denuntiatio, Bernardo fa seguire la excommunicatio. Mentre scrive la prima Apologia contra Bernardum, Abelardo si rivolge all’arcivescovo di Sens, Henri Sanglier, perché patrocini una serena e obbiettiva disputa pubblica tra lui e l’abate di Clairvaux. Ma quando Abelardo entra nella cattedrale di Sens, scopre d’essere l’imputato d’una sorta di sinodo processuale, alla presenza di numerosi vescovi, abati, canonici e dello stesso re di Francia. Sconvolto, rifiuta il giudizio e contesta la legittimità dei giudicanti, appellandosi al Papa.

Partiranno verso Roma sia il trattato De erroribus Abelardi di Bernardo, sia una seconda Apologia contra Bernardum di Abelardo. Ignaro questi che ogni decisione era già stata presa senza di lui in una sessione ufficiosa del sinodo e che Bernardo ha sollevato i palazzi lateranensi contro il nuovo Golia. Tutto – accuse, scomuniche, trattati, apologie – si svelano essere al fondo le cime d’un vero scontro epocale tra filosofia sacra e sacra teologia, tra la ragione umana che lucidamente aspira a Dio e il sentimento del cuore credente che irrazionalmente se ne fa invadere. Sarà la Scolastica, con Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino, a portare a sintesi l’intellettualismo dell’uno e il misticismo dell’altro. Entrambi preziosi alla storia.

Condannato, ribadita la scomunica, bruciati i suoi libri davanti a San Pietro in Vincoli, tuttavia Abelardo si mette in viaggio verso Roma, ostinatamente certo della giustizia delle Chiavi di Pietro. È circa del 1141 una lettera di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, diretta a papa Innocenzo II: “Al sommo pontefice, padre e signore, papa Innocenzo, Pietro, umile abate di Cluny, ubbidienza e amore. Maestro Pietro, perfettamente noto, mi sembra, alla vostra sapienza, è passato recentemente da Cluny, venendo dalla Francia. Gli abbiamo domandato dove andasse. Ci rispose che, stanco per le vessazioni di taluni che volevano a tutti i costi farlo passare per eretico, cosa di cui aveva orrore, si era appellato alla maestà apostolica e voleva rifugiarsi sotto le sue ali. Abbiamo lodato il suo proposito e l’abbiamo consigliato di raggiungere senz’altro il nostro rifugio, che tutti accoglie.  […] Proprio in quel momento sopraggiunse il signor abate di Citeaux [Raynaud de Bar], che si trattenne a discutere con noi e con lui della possibilità di addivenire ad una pacificazione tra lui e l’abate di Clairvaux, contro il quale si era appellato. Anche noi ci adoperammo a mettere pace e lo esortammo a recarsi a Clairvaux insieme con l’abate [di Citeaux]. E così fu fatto; vi andò, tornò e al suo ritorno riferì che […] messi da parte i rancori di un tempo, si era rappacificato con l’abate di Clairvaux. Nel frattempo, in virtù dei nostri consigli, ma soprattutto, come crediamo, per ispirazione di Dio, manifestò il desiderio di dimenticare i tumulti delle scuole e degli studi e di fissare per sempre la sua dimora nella vostra Cluny. Ve ne supplico dunque, io che, qualunque io sia, sono vostro, ve ne supplica il monastero di Cluny […] ve ne supplica egli stesso personalmente […di] ordinare che egli finisca gli ultimi giorni della sua vita e della sua vecchiaia, che forse non sono più molti, nella vostra Cluny e che dalle istanze di nessuno egli possa essere cacciato e allontanato da questa casa, dal nido che egli come un passero o una tortora è contento di aver finalmente trovato”.

Sarà lo stesso Pietro di Cluny a dar notizia della sua morte a Eloisa, in una lettera di superiore involo spirituale e di commossa pietas: “Sorella venerabile e carissima nel Signore, colui al quale tu fosti prima unita nella carne, poi legata con un nodo tanto più saldo quanto più perfetto era il legame della carità divina, colui con il quale e sotto il quale hai servito il Signore, Cristo ora lo tiene nel suo seno al tuo posto e come un’altra te stessa, te lo custodisce affinché alla venuta del Signore […] per grazia sua ti sia restituito”.

Era morto il 21 aprile del 1142: un necrologio del Paraclet riporterà testualmente: “Maître Pierre Abélard, fondateur de ces lieux et instituteur de sainte religion, trespassa le 21 avril, âgé de LXIII ans”. Eloisa sopravviverà ventidue anni al suo unico amore terreno, morendo anche lei all’età di sessantatré anni il 16 maggio 1164. Le loro tombe, dopo infinite vicissitudini, sono dal 1816 per sempre vicine, in un doppio, monumentale sacello di Alexandre Lenoir, al cimitero parigino del Père Lachaise. Il Romanticismo si era da tempo rispecchiato in quegli amanti. E di quel luogo, maestoso e calmo, farà oggetto d’un pellegrinaggio ancor oggi inconcluso.

(2 – fine)

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