Al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello;/ la sua ancella, anzi figlia, la sua sposa, anzi sorella;/ ad Abelardo, Eloisa

È così, con dolcezza e malinconia insieme, che Héloise, badessa del Paraclet, scrive a Pierre Abélard, abate di Saint-Gildas de Rhuys, certamente dopo il 1134. Quali complesse umanità si celavano dietro quei celebri nomi e quali ragioni avevano portato l’autrice della lettera ad un incipit così soavemente ambiguo? I documenti d’identità della mittente e del destinatario appaiono subito indispensabili.



Pierre Abélard era nato nel 1079 a Le Pallet (Le Palais), nella Bretagna Minore o Loira Atlantica, non lontano da Nantes. Le chevalier Béranger, uomo d’arme già al servizio del conte di Nantes, era il padre; e la possidente dame Lucie, la madre. Alla morte di Daniel du Palais, suo patrigno e dominus del luogo, costei ne aveva ereditato e la signoria e il castello: che erano stati affidati a Béranger (come baillistre o tutore della moglie). Tal marziale signorotto, forse anch’egli d’una piccola nobiltà, era tutt’altro che incolto. Aveva frequentato la corte del duca d’Aquitania, Guillaume IX, dove aveva ascoltato i primi troubadours e si era nutrito di sogni cavallereschi, di ambizioni sulla conquista dell’Inghilterra, di letteratura, di canzoni profane e di monodie sacre.



Il primogenito Pierre verrà educato subito alla scherma e all’equitazione, ma anche al latino, alla grammatica, all’ars musica. E mai nel locale dialetto bretone, ma sempre in latino o in una lingua romanza chiamata franceis (e che riuniva le cd. langues d’Oïl). Béranger naturalmente destina il ragazzo alla carriera militare; ma sarà il secondogenito Raoul a seguirla (degli altri fratelli, Porchaire diverrà canonico, Dagobert non è conosciuto e Denyse sarà madre di famiglia). Pierre, invece che a spade e armature, vuol dedicarsi agli studi più alti: e a undici anni ottiene d’essere affidato alla Scuola di Chartres, entrando presto fra gli allievi di Roscellino di Compiègne. Non può ovviamente bastare. A poco più di vent’anni – nel 1100, quando i Crociati di Goffredo di Buglione hanno appena conquistato Gerusalemme – Abelardo arriva a Parigi per seguire le lezioni di Guillaume de Champeaux, arcidiacono della Cattedrale di Notre-Dame e demiurgo della contigua École du Cloître. Non ci vorrà molto perché allievo e maestro scendano in campo per un furibondo torneo di idee filosofiche e rivalità personali, destinato a protrarsi per anni.



Celibe, bello nel volto e forte nella corporatura, parlatore già straordinario, Pierre spicca in quella folla di giovani, ardenti d’amori e di saperi, che riempiono le strade, le scuole, le chiese, le bettole e i bordelli di una Cité finora mai così viva. E solleva invidie e rivalità tali che Champeaux gli impedisce di succedergli sulla cattedra che ha appena lasciato per il monastero di Saint-Victor. Nel 1110 però il potente Etienne de Garlande, Gran Siniscalco di Francia, ottiene dal re Louis VI, detto il Grosso, il decanato dell’abbazia di Sainte-Geneviève, allora alla periferia di Parigi (oggi Saint-Etienne du Mont, nei pressi del Panthéon e della Sorbona) e chiama Abelardo a fondarvi una scuola.

Vorrà, maître Pierre, che non sia riservata ai chierici, ma aperta a tutti i giovani d’Europa, che accorrono, a masnade entusiaste e inarrestabili. Abelardo giganteggia tra loro non solo per la statura, ma per eloquenza ineguagliabile e strepitoso carisma umano. Goliath è presto il suo soprannome e quei ragazzi di cento lingue diverse – ma unificati dal latino e dalla gioia di vivere e apprendere – vengono chiamati goliardi. Suoi allievi celebri saranno Robert de Melun (poi appassionato mediatore tra Becket e il suo re), John of Salisbury (il segretario di Becket), Ottone di Frisinga (zio di Federico Barbarossa), Gossuin d’Anchin (poi santo) e Rolando Bandinelli (futuro papa Alessandro III). La fama e il denaro affluiscono come un fiume nelle scarselle di Abelardo. Ed egli osa espandere il proprio raggio d’azione fino agli estremi confini delle arti del trivium, discettando di dialettica, logica, retorica, di tutte le filosofie insomma (Logica ingredientibus; Logica nostrorum petitioni sociorum; Dialectica; Tractatus de intellectibus etc.). Ed entrando in modo geniale e inatteso nel dibattito allora più vivo: quello degli universali.

La quaestio disputata nasceva da un passo dell’Isagoge del filosofo plotiniano Porfirio, già commentato da Severino Boezio, ove si trattava della definizione dei “termini universali” di genere e specie (vegetale, animale, uomo, etc.) e del problema ad essi inerente: l’universale esiste nella mente o nella realtà? La disputa si era sviluppata nel nascente XII secolo, contrapponendo Anselmo d’Aosta e Guglielmo di Champeaux, sostenitori entrambi della realtà degli universali (realismo), ai fautori d’un carattere puramente nominale (nominalismo), come Roscellino. O come Bernardo di Cluny, che, con il paradigmatico v. 952 del suo De contemptu mundi, verrà chiamato da Umberto Eco a chiudere solennemente Il nome della rosa: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (La rosa primigenia esiste in quanto nome: noi non possediamo che nudi nomi). Abelardo, discepolo prima di Roscellino e poi di Guglielmo di Champeaux, contesterà ambedue le tesi (Glossulae in Porphyrium; Commenti all’Isagoge di Porfirio): non si può sostenere la realtà dell’universale ante rem, poiché nessuno è in grado di conoscere la mente divina; né ha senso sostenere l’esistenza dell’universale nelle cose, poiché esse sono sempre individuali. L’errore fondamentale che accomuna i realisti e i nominalisti è concordare nell’attribuire all’universale la caratteristica di res, che per i primi è un’essenza trascendente, per i secondi una semplice cosa con un nome. Per Abelardo l’universale non è una cosa, non è nulla di materiale che stia negli individui o fuori di essi (in re o ante rem): ma è un sermo, un discorso, un significato logico-linguistico prodotto dalla nostra mente che elabora la realtà, ma che può non coincidere con essa, limitandosi solo ad attribuirle un senso. L’École de Notre-Dame (con Champeaux) e l’École de Sainte-Geneviève (con Abelardo) si scontrano sul tema senza esclusione di colpi. Le tesi abelardiane, tuttavia, sono di una modernità e racchiudono un potenziale di libertà individuale (e morale), da suscitar l’entusiasmo di tutti giovani studenti di Parigi, che in massa abbandonano lo studium di maître Guillaume per passare a quello di maître Pierre.

Questi peraltro non vuole legarsi per sempre a Sainte-Geneviève: nel 1112 torna a Le Pallet per l’entrata in monastero d’entrambi i suoi genitori. E viaggia poi, spingendosi fino in Spagna, a Léon, ove incontra Adelardo di Bath; e nell’Andalusia moresca degli Almoravidi, di cui serberà lunga nostalgia. Quindi sale all’estremo nord della Francia, a Laon, per mettersi alla scuola spirituale dell’omonimo Anselmo. In possesso di armi esegetiche ben più sperimentate del maestro, Pierre affronta senza troppa anticamera la Sacra Scrittura, inventa ora l’inedito termine di theologia e offre una serie di acclamate lectiones biblicae che provocano la condiscendenza prima, quindi la gelosia dello stesso Anselmo, che lo mette sgarbatamente alla porta. Parigi, del resto, attende con impazienza il suo idolo, per affidargli in pienezza la scuola di Notre-Dame. L’ostile Guillaume de Champeaux è ormai assiso sulla cattedra episcopale di Châlons-sur-Marne e i de Garlande, ora anche signori di Livry e da tempo protettori di Abelardo, sono al vertice del loro potere alla corte di Louis VI.

È anche legato con costoro tutti un suddiacono e canonico della Cattedrale di Notre-Dame, Fulbert de Champagne, ben introdotto in curia, nonostante i sospetti di un traffico di reliquie e a corte, per una parentela con l’intrigante regina madre Bertrada de Montfort. Vive e studia presso di lui una giovane nipote, Héloïse (1092 ca.). Era costei la figlia adulterina della sorellastra di Fulbert, Hersende de Champagne de Montsoreau e di Gilbert de Garlande le jeune, signore di Noisiel e Grand Bouteiller de France (ossia sovrintendente ai vigneti, ai vini e ai coppieri del re, carica fra le più alte del regno e che verrà soppressa solo con la Rivoluzione francese).

Héloïse ha studiato nel convento di Argenteuil, attendendo alle arti liberali e padroneggiando il latino, il greco, l’ebraico, la Scrittura e (stupendamente) la poesia. In qualche modo Abelardo la scorge una prima, rapida volta; poi la cerca, poi la conosce, poi ne è preso d’amore in un modo che lui stesso fino ad allora ha ignorato. Non arretra di fronte a nessuno stratagemma per accostarsi a lei, offrendosi a Fulbert per perfezionare la cultura e la sapienza della ragazza. Il canonico pensa che avere maître Abélard come altolocato precettore di Héloïse sia il perfetto trampolino di lancio per colei che l’Areopago degli intellettuali parigini sembra refrattario a ricevere, in quanto donna e in quanto giovane. Abelardo viene dunque accolto en pensionnaire payant dal vanitoso e venale Fulbert. Sì che “ci trovammo uniti sotto lo stesso tetto, poi anche nei nostri cuori” (Abelardo, Historia calamitatum, Garzanti, Milano 2003). “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende/ Amor, ch’a nullo amato amar perdona” avvince entrambi, in modo implacabile e travolgente se ve ne furono. “Nel nostro ardore passammo per tutte fasi dell’amore: e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande, perché noi non lo avevamo mai conosciuto” (Historia, cit.).

L’esito primo – narra Abelardo stesso –  è che “le mie lezioni erano sciatte e prive di entusiasmo […] tutto mi usciva di bocca soltanto grazie alla mia lunga pratica  […] e se mi capitava di creare qualcosa di nuovo, non si trattava certo di alte teorie filosofiche, ma di canzoni d’amore”. E non possiamo ad oggi negare se qualcosa di quei carmina amatoria sia passata negli autori francesi dei Carmina Veris et Amoris del Codice di Ottobeuren (i Carmina Burana), quali Hugo d’Orléans o Gualtiero di Châtillon o Pierre de Blois o Philippe le Chancelier. L’esito secondo è che, seppur per ultimo, anche Fulbert viene a sapere ciò che tutta Parigi ormai sa da tempo: e lo scandalo familiare, le reprimende e la necessaria separazione piombano violentissime, tanto più che in breve Héloïse si scopre incinta.

Gli amanti fuggono a Le Pallet, ove lei nel 1116 partorisce un bambino e gli pone il singolare, ma significativo nome di Astralabe. Il ritorno di Pierre a Parigi è dovuto: per incontrare Fulbert, per supplicare il suo perdono, per dichiararsi pronto a sposare Héloïse. E nonostante la forte opposizione di lei – Abelardo avrebbe perso la cattedra e i benefici, nonché lo stile di vita da chierico e studioso per badare con lei ai pianti e ai panni d’un bambino!? – il matrimonio avviene, dopo una veglia di preghiera, in una buia alba parigina e con tutti i crismi della segretezza. Fulbert, tuttavia, schiuma ancora rabbia: e diffonde ovunque la notizia delle nozze, tanto che Abelardo fa nascondere Astralabe dalla sorella in Bretagna e Héloïse nel monastero di Argenteuil, in una simulata condizione di novizia. Tutto il clan parentale di Fulbert – de Monfort, de Champagne e altri – pensandosi perciò beffato e disonorato oltre misura, organizza la più atroce delle vendette: “Una notte, dopo aver corrotto un mio servo con denaro, mi sorpresero mentre riposavo tranquillamente in una stanza appartata di casa mia […] e mi tagliarono la parte del corpo con cui avevo commesso ciò di cui essi si lamentavano. […] Riuscirono a fuggire tutti, tranne due, ai quali, dopo la cattura, furono cavati gli occhi e tagliati i genitali” (Historia, cit.). Un tribunale episcopale accerta la colpevolezza di Fulbert e lo priva temporaneamente di parte dei suoi benefici.

Il giorno dopo quella sanguinaria notte, gli studenti, i chierici dell’École de Notre-Dame e molti abitanti della Cité, affluiscono lentamente davanti alla casa di Abelardo: e da quella che presto è una folla enorme, si leva un lungo, inconsolabile compianto sulla virilità perduta del loro maestro ed amico.

(1 – continua)

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