“…c’è anche/ la ciaccona dalla seconda partita per violino solo: qui,/ solo forse in questo dove, Bach parla della sua vita,/ a un tratto, inaspettatamente, ci racconta di se stesso,/ irruente butta fuori tristezza e gioia (perché è questo/ tutto ciò che abbiamo)…/ non d’altro, peraltro, sogniamo anche noi,/ se non di poter finalmente dire il vero sulla nostra vita,/ e non facciamo altro che tentare e ritentare…/ che tentare e ritentare – epperò, nondimeno…dove sono,/ dove potranno mai essere le nostre cantate – dimmi ti prego,/ ti prego dov’è l’autre côté de la vie, the other side of the wind –/ dimmi cosa guarisce dal tacere.”



Voglio imparare da Adam Zagajewski, dalla sua Ciaccona – poesia contenuta nella sua raccolta La vera vita e poi pubblicata nell’antologia Guarire dal silenzio del 2020; dal suo interrogarsi su quando e se saremo mai in grado di toccare anche solo un po’ la verità. Voglio capire se mai davvero riusciremo a rispondere alla sua altra, grave domanda: “Se hai visto lo squallore, hai saputo/ dargli un nome, domando./ Se hai incontrato qualcuno che davvero viveva/ autenticamente, hai saputo riconoscerlo?” Sappiamo dare un nome alle cose? Sappiamo riconoscere l’evidenza di una verità?



Prendo le poesie di Zagajewski e le metto su come degli occhiali, per vedere se capisco più chiaramente il mondo intorno. Faccio sempre così con le parole che contano, con i libri che mi strappano via dalla superficie oscena a cui gli uomini riducono le cose. Ma non le riducono forse così proprio per il diluvio ininterrotto di parole da cui ormai siamo sommersi?

Assistiamo in diretta alla morte della politica – della più nobile delle forme di carità che l’uomo potesse inventarsi – per annegamento dentro parole vacue: appunti scritti su un foglio che diventano argomento di interminabili talk show, tweet che si rincorrono e si contraddicono, post e postpost che vengono rigurgitati dentro il grande brodo primordiale della rete.



Abbiamo vissuto in diretta la tragedia della guerra, attimo dopo attimo, con esperti politologi, esperti balistici, esperti nientologi appesi al collegamento dal punto esatto in cui la bomba è caduta o i morti sono stati sfregiati, deturpati, buttati come pattumiera sottoterra.

Sarà questo il tentare e ritentare di cui parla Zagajewski? Per questo dobbiamo perdonare questo parlare continuo? Perché in fondo questi non sono altro che tentativi di raggiungere quel pezzo di verità che possiamo toccare?

Abbiamo subito una campagna elettorale fatta di numeri, cifre e percentuali come profezie del disastro imminente; fatta di promesse – ma questo sta nella sostanza delle cose – intorno a parole chiave da cui ripartire. La scuola stava lì, con la pace e il sostegno alla famiglia, in prima fila. Ma nel balletto di indicazioni sui ministeri chiave, della famiglia, della pace, della scuola non si è parlato. E intanto nella scuola reale assistiamo alla battaglia per il diritto fondamentale di grandi e bambini a stare nel brodo primordiale, seguiamo la lotta ritenuta sacrosanta di alunni e genitori per avere sempre in tasca il cellulare anche durante le lezioni: Digitoergosum (tutto intero magari, perché il latino e Cartesio chi li conosce?). Per potere parlare, comunicare, rimanere connessi.

Non si fa nemmeno in tempo a morire. Nell’arco di un’ora viene realizzata la trasmissione in cui si ricordano i primi passi del cantante prematuramente scomparso, i suoi dolori, le sue fughe, i successi e gli insuccessi. Con testimoni sempre pronti a intervenire e ritagliarsi qualche minuto di visibilità nello speciale realizzato con tanta solerzia e competenza. Anche la memoria non è più memoria.

Addirittura il rumore polemico avviene come una profezia prima ancora dello schianto: si pensi ancora una volta a un giornalismo che commenta e sbrana governi e ministeri prima ancora che esistano. Parole e immagini sempre. Prima, durante, nemmeno un attimo dopo.

È forse questo quel tentare e ritentare di cui parla Zagajewski? Forse queste parole e queste immagini sono in grado di vincere il silenzio di cui lui parla?

Ma quante di queste parole sono parole di uomini “Testardi e accecati… (che cercano)… l’immagine/ e la forma definitiva delle cose/ in mezzo a inspiegabili/ attacchi di muta disperazione.”? Quanto invece, proprio questo fiume di parole ci trascina via da noi? Quanto invece, questo malato e continuo desiderio di guardare e dire sta offuscando sguardo e parola?

Così i versi di Zagajewski che ho messo su come degli occhiali per guardare il mondo, paradossalmente mi dicono che guarire dal rumore è la condizione essenziale per guarire dal silenzio. Dal silenzio di una parola che è solo rumore. Lo sanno tutti, non lo fa nessuno. Forse perché abbiamo paura. Perché non vogliamo ammettere con Rilke che “c’è un limite al guardare,/ e il mondo lungamente misurato dallo sguardo/ vuole prosperare nell’amore./” Come facciamo a dare ragione ai poeti o a un papa che ti buttano lì la solita solfa del cuore che fa rima con l’amore?

Siamo grandi, il mondo è complesso. Aspettiamo la prossima maratona speciale, il prossimo diluvio di tiktok e twitter, le prossime circolari scolastiche sulla fine delle conoscenze. Torniamo nel silenzio del rumore. Il rumore delle parole che non hanno più il fulgore della verità, di quel fulgore che ci invita – dice sempre Zagajewski – a parlare più pacatamente: “la folgorazione deve trattare con settimane di digiuno,/ deve scegliere e rinunciare, prendere tempo/ e conversare a lungo con emissari di secchi paesi/ e labbra screpolate, devi aspettare,/ scrivere lettere, leggere libri di cinquecento pagine/. Parla più pacato. Non rinunciare alla poesia”.
Io non rinuncio. Ma chi li ascolta i poeti?

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