Ci sono libri che confermano, nel loro rivolgersi ai lettori, l’attualità della risposta che Alessandro Manzoni diede nel 1823 a Jean Chauvet, il quale lodava Il Conte di Carmagnola, perché non rispettava le unità aristoteliche di tempo e di luogo. Manzoni aveva in mente ben altro.

Nel 1823 venne pubblicata a Parigi la Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, in appendice alla traduzione francese dell’Adelchi  e del Conte di Carmagnola. È noto il contenuto di quella risposta, che fece epoca: il poeta non deve inventare i fatti perché la storia offre già un grande numero di eventi importanti e significativi; al poeta spetta il compito di ricostruire, interpretare con l’immaginazione quelle emozioni, quelle paure, quelle speranze che sono invisibili agli occhi dello storico e che sono invece essenziali per comprendere l’umano. Manzoni, come è noto, introduceva così le sue considerazioni sulla filosofia della storia: la storia ch’era sovrastata da un piano provvidenziale di cui troppe volte non si sapeva scorgere il senso profondo.



Ed ecco il segreto dell’ultimo libro di Lodovico Festa: sotto l’ordito di una tessitura intellettuale finissima, intarsiata di dialoghi di altissimo livello interpretativo, il lettore è messo in grado di comprendere con acutezza la tragedia italica della prima metà degli anni Novanta del Novecento: ecco la storia. La storia della tragedia in cui si consumò la fine della Repubblica, con la costituzione in forma di potere politico dell’ordine della magistratura, che così muoveva di fatto alla distruzione, in nome della lotta alla corruzione ed eterodiretta dalla cuspide delle potenze finanziarie ordoliberiste, del nesso benefico esistente tra partiti di massa e grandi imprese pubbliche e private. Si consumava così la fine dell’ordinamento liberale della democrazia, fine promossa dalle grandi centrali finanziarie liberate dal crollo dell’Urss delle ancora esistenti resistenze dinanzi ai piani di privatizzazione dell’economia e di sregolazione di un capitalismo che da allora diverrà ingovernabile e distruttivo.



Il Pci di Achille Occhetto – e prima di Enrico Berlinguer – fu complice di questo disegno e se questa suicida complicità lo salvò dal disegno eliminatorio, ne distrusse inevitabilmente le stesse fondamenta politico-culturali. Delle ansie, delle paure, delle riflessioni, delle disperazioni che tutto ciò provoca nelle umane genti comuniste di ogni ceto e classe sociale, al vertice o alla base del Partito, Festa dà un ritratto avvincente e spesso commosso e commovente come accade nel romanzo poliziesco di gran classe, con un linguaggio letterario bellissimo.

Addio Milano bella. L’ultima indagine dell’ ingegner Cavenaghi, pubblicato dall’“editore ideale” Angelo Guerini, chiude la trilogia iniziata con La provvidenza Rossa e continuata con La confusione morale. Si dipana dinanzi al lettore un’invenzione letteraria che ha, nell’utilizzazione della struttura linguistica del romanzo giallo, l’intelaiatura su cui montare una storia  intrigante e tutta nuova  su ciò che è successo in Italia dall’inizio del disgregarsi della Prima Repubblica nella prima metà degli anni Novanta del Novecento: una vera occasione letteraria e storiografica insieme. L’ intelligenza politica sempre sorprendente di Festa si unisce a quella dello storico e dello scienziato della politica con tratti che piuttosto che a Le Carré o a Graham Green fanno pensare, così come accadeva nelle prime sue due opere, al geniaccio di Carlo Emilio Gadda. Perché? Ma perché Festa costruisce il suo percorso narrativo secondo due macchine del tempo che fa agire in una piazza in cui sfilano dinanzi a noi gli eventi.



Il tempo primo è quello dell’evento furfantesco di cui non si comprende all’inizio il fine: un furto è compiuto ai danni dei fondi segreti di un Pci trasformato in una cosa che sa solo dire ciò che non è, piuttosto che ciò che è (ogni riferimento a Montale è dovuto). Ma di questo furto nulla devono sapere i nuovi dirigenti che si sono succeduti dopo la trasformazione del partito, sennò si cadrebbe nelle spire della persecuzione giudiziaria ormai ciecamente in atto.

Ed ecco il secondo tempo: quello dell’ingegner Cavenaghi, già responsabile degli “affari segreti” del Partito milanese, richiamato  dall’esilio in cui si era rifugiato con uno stratagemma dai vecchi compagni che mal sopportano il cambiamento di linea politica: lo convincono a tornare in campo per risolvere il problema (e così donarci quella serie bellissima e gustosissima di conversazioni meravigliose).

Ed ecco il tempo di coloro che credono che la fine del partito non ci sarà perché è in atto una sorta di consustanziazione nelle nuove forme dell’ordinamento giudiziario e della lotta per la moralità e quindi contro tutte le forze politiche, a partire dallo stesso glorioso partito. Una parte dei vecchi compagni non si rassegna all’autodafé. E dunque non ci si  rivolge alla polizia per perseguire i ladri, ma si cerca da soli di scoprirli, tanto i ladri e quanto i motivi profondi di quel furto.

Ed è questa la sorpresa finale: è il marchingegno narrativo che regge tutto l’ordito cerebrale e recitativo, insieme, del racconto. La piazza in cui tutto si svolge è una Milano sempre descritta, come nei due libri precedenti, con un amore che non preclude un’analisi storica e urbanistica che ci offre pagine da antologia dell’urbano. Una Milano che ha un significato in ogni sua via, in ogni sua piazza e soprattutto in ogni suo percorso su tram e autobus. La bufera di Mani Pulite ha un effetto devastante e il testo bene consente di comprendere ciò che accadde e ciò che ci condiziona ancora oggi, con quell’acume poetico manzoniano richiamato all’inizio. Il segreto della letteratura diviene così il segreto della storia: un segreto che si disvela sempre e soltanto con la verità. Anche nella letteratura.