Mariapia Veladiano non cessa di stupire, con la sua scrittura raffinatissima e insieme leggibilissima, con la sua leggerezza capace di affondi stupefacenti, con la sua passione per la tradizione e insieme la sua modernità.

L’ultimo libro, Adesso che sei qui (Guanda, 2021) è la storia dolorosa dell’impatto con il morbo di Alzheimer, ma invece di essere l’ennesima elegia per ciò che si è perduto o il romanzo-denuncia per tutto quanto nel nostro paese non funziona in termini di assistenza, è la rappresentazione realistica e appassionata di una presa in carico.



Senza nulla togliere all’impatto drammatico che questa malattia ha sul paziente e su tutto il mondo che lo circonda, il romanzo è una carrellata dolcissima sull’attraversamento della sofferenza da parte di un universo femminile operoso e solidale.

Il luogo è il Trentino prossimo al lago di Garda, un luogo ancora capace di ritmi e relazioni umanamente degni, un luogo in cui il rischio dell’isolamento per il malato e i caregivers viene bloccato dall’energia operosa della protagonista e il villaggio sollecitato a diventare risorsa.



Zia Andreina, la malata, è il paradigma di una femminilità operosa che nel suo semplice habitat agricolo era riuscita a tessere rapporti significativi, a vivere la responsabilità della cura per sé e per gli altri; intelligente economa e raffinata esteta aveva saputo trasformare la propria casa in una dimora. Gli spazi sono semplici ma curati, il giardino è il luogo della bellezza ma anche di una sapiente utilità per la maestria con cui sono coltivate erbe aromatiche, la carità è azione quotidiana, intelligente e costruttiva. “Chi al povero dà, al Signore presta”.

Per rappresentare la catastrofe che l’esordio della malattia porta con sé l’autrice trova due immagini paradigmatiche. Un frigorifero, da sempre custode di una cura precisissima e ora guazzabuglio infernale, e un armadio, in cui nel caos totale l’unico abito in ordine è un cappotto di lana con i bordi di pelliccia abbinato ad un cappello di velluto, la mise che la zia indosserà in un afoso pomeriggio estivo e che rappresenterà l’esordio conclamato.



La Veladiano, che oltre che teologa e autrice è stata per lunghi anni donna di scuola, docente prima e preside negli ultimi anni, trova nel romanzo infinite occasioni di paragonare i due universi: quello della malattia e quello della formazione dei giovani. Magistrale il confronto fra il caos dell’armadio, tutto interno, e il caos della camera dell’adolescente, tutto esterno ma governato da una ragione vigile.

Ricorrenti sono i riferimenti al contesto scolastico, riconosciuto e apprezzato come uno straordinario repertorio di conoscenze ed esperienze di relazione, sottratto alla burocrazia dei protocolli e riletto in una prospettiva maieutica e sempre rispettosa dell’originalità del discente. “A volte i malati corrispondono alla nostra attesa che li vede malati. E lo diventano ancora e ancora. Come a scuola i ragazzi, proprio come a scuola. Inchiodati ad essere come li abbiamo fissati al primo consiglio di classe…”.

Molte sono le provocazioni che chi vive di scuola può ricevere da questo romanzo. Pazienza, tolleranza, ascolto, rispetto, il romanzo è un repertorio infinito di relazioni nuove, umanamente degne. Attorno al malato si costruisce pazientemente una rete di relazioni che producono effetti terapeutici innanzitutto in coloro che si coinvolgono, prima ancora che sul malato. Contro l’eccesso di medicalizzazione e contro una gestione rigida e meccanica del tempo, la realtà sembra piegarsi a un nuovo ordine in cui tutto è più umano perché condiviso. “Nemmeno Dio fa da solo…”.

Il tempo acquista un ritmo prezioso fatto di attenzione alla perfezione delle cose, date per scontate dalla nostra quotidiana distrazione e invece osservate con uno stupore colmo di gratitudine quando anche il gesto più banale non riesce più.

La delicatezza della Veladiano riesce a toccare con leggerezza anche tematiche fra le più violente del nostro presente, le donne che la circonderanno nell’accudimento della zia provengono da paesi lontani e si portano appresso ferite profonde. Senza indulgere all’idillio, nella casa ogni donna risulta portatrice di una cultura e di una capacità terapeutica che consente fino alla fine un’esistenza degna per il malato e un’esperienza sostenibile per i parenti. Un esempio notevole di esperienza autenticamente interculturale.

Viene in mente la tecnica giapponese del Kintsugi, quella per cui si ripara con polvere d’oro il vasellame frantumato. La fragilità del morbo è ricomposta in nuovi preziosissimi equilibri, in cui tutto diventa gratitudine.

La presenza devota della nipote Andreina, i suoi interventi discreti e risolutivi di fronte alle amnesie sempre più frequenti, suggeriscono una modalità di relazione e di cura assolutamente commovente, modellata interamente, ma senza ostentazione, sulla tradizione ebraico-cristiana.

La scrittura sa essere preziosa e umile insieme, come la realtà, capace di passare da un registro popolare, anche utilizzando il realismo mimetico del dialetto, a squarci lirici e descrittivi di manzoniana memoria.

Un testo da leggere per ritrovare speranza ed energia in un momento in cui tutti sembrano paralizzati da una nuova percezione di fragilità.

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