Torno qui su Iànu e l’àngilu (Youcanprint, 2024), un libro di poesia che in un precedente articolo avevo accostato alle due raccolte Dal Lazzaretto di Luigi Cannillo e Il bel tempo di Luisa Pianzola. Non soltanto perché sono tre libri molto recenti di autori che conosco da molti anni; non perché hanno già ricevuto ampi riconoscimenti; ma perché tutti, interrogandosi sul tempo, affrontano a viso aperto le domande fondamentali sul senso dello stare al mondo, oggi come ieri. E, contemporaneamente, sul significato e sul compito della parola poetica in questo attraversamento dell’esistenza.



Come dicevo, Iànu e l’àngilu è un lungo racconto in versi nella lingua siciliana di Sortino, lingua che Sebastiano Aglieco aveva già frequentato in precedenti lavori. Lo presenta così lo stesso Aglieco, nelle pagine del suo blog Compitu re Vivi: “Dopo anni di ripensamenti e rimandi, esce il mio secondo libro interamente in lingua siciliana, nella forma reinventata del ‘cuntu’. Racconta dell’incontro tra un bambino fuggito di casa e un angelo nero. Lo sfondo sono le campagne che circondano Sortino, la mia città natale”. La storia si apre su una scena quasi apocalittica: “anculìunu i bbèstii nna ddi furni/ peddi e ossa, ssciancàti ri fora, i urèdda sicchi/ u bbàstiu mburugghiàtu a uccalàmma/ a càuci ro suli sduacàta a ssicchi” (spingono le bestie verso i forni crematori/ pelle e ossa, sfiancati nel corpo, le budella secche/ il bastio attorcigliato allo stomaco/ il sole calcinato buttato a secchi).



La violenza degli adulti, condensata ed esaltata nelle immagini delle bestie condotte al macello, porta il bambino Iànu (occorre dire che è il diminutivo di Sebastiànu?) a ribellarsi. Fugge Iànu attraverso la vallata di Sortino, sotto Pantàlica, una terra bruciata dal sole, selvaggia, il cui attraversamento assomiglia sempre più all’inoltrarsi in una specie di inferno abitato da fantasmi, da alberi storpi e allampanati, sterpaglie, piante velenose, dirupi impraticabili. Il tempo dell’infanzia, ben lontano dall’essere il tempo della spensieratezza, diviene un apprendistato della paura e dell’abbandono, un passaggio in cui il mondo è popolato da esseri ancestrali mossi soltanto dal desiderio della sopraffazione e della sopravvivenza. Ma in questa sua fuga il bambino incontra un angelo nero, “comu a fògghìa, ca nun trova ùmmira” (simile a una foglia che non trova l’ombra). Anche l’angelo è un diseredato. E sorprendentemente Iànu lo consola e lo protegge, e si fa a sua volta consolare e proteggere. Se la legge del mondo è quella riassunta dall’urlo della gazza “picchì tutti si stràzzunu” (perché ogni cosa è ferita), Iànu crede di potere ritrovare nell’angelo l’amico che gli aveva insegnato ad alzare lo sguardo: “nu mmiriàri i cosi vastàsi/ nun ti sbriugnàri ràvanti o munnu/tira càuci, lassa e lurdi a llurdìa/ i sciùri ca fétunu làssili subbra ll’altàri” ( non ti affezionare alle brutture/ non ti svergognare davanti al mondo/ difenditi, lascia la sporcizia agli sporchi/ i fiori che puzzano lasciali sopra gli altari).



Il cuntu, ritmato in 12 stanze introdotte da un titolo che ne anticipa il contenuto, come accadeva per i cantastorie siciliani, vede nella settima stanza l’angelo raccontare a Iànu come sia stato scacciato dal padre prepotente: chi ha creato l’angelo è soltanto un demiurgo, nessun amore e misericordia lo lega alle sue creature. Anzi, proprio quando l’angelo e i suoi fratelli pensano di potere scegliere con la loro testa e il loro cuore, lui li punisce. E l’angelo, nonostante tutto rimane ancora ad aspettare un bacio da lui. Che non arriva.

Iànu, ancora tra la realtà e il sogno, protetto nella notte dall’angelo, parla con una delle bestie portate al macello: non c’è redenzione, sembra dire il poeta che spacca il suo sguardo su questa discesa nella fine, perché il tempo non sembra riservare alcun altro senso. Né per gli uomini, né per gli angeli. E nemmeno per un bambino che dorme e potrebbe sognare per sé un destino di bene e che invece le creature della notte tentano di rapire. È l’angelo a svegliarlo, a scacciarle tutte con una magìa. E mentre i due si svegliano la mattina successiva, pieni di un dolore dal quale sono accomunati, si sente una voce che chiama: “o iàno, iàno, dove sei!”. Il bambino guarda l’angelo e gli chiede di raccontargli una favola prima di tornare da sua madre che lo cerca. Il cuntu si chiude così, con la favola che l’angelo racconta. Ma questa favola non è altro che la poesia di Guido Gozzano, La notte santa, che il poeta traduce nella sua lingua siciliana. È l’annuncio della nascita di un bambino, della nascita di Cristo.

A cosa servono i poeti? Lo sguardo del poeta Sebastiano Aglieco, tutto rivolto a un passato crudo e oscuro che sembra scorrergli dentro il sangue, le ossa e la sua stessa lingua – e questo è anche il valore del libro: quello di una terra, di un sole, di un dolore che si fa lingua – sembra affermare che non c’è alcuna speranza per il tempo degli uomini. Le pagine conclusive, allora, sono davvero solo una favola consolatoria prima di ritornare dentro la realtà crudele? O piuttosto in esse si manifesta il perdurare di un desiderio di senso che nessuna idea, nessuna mano, nessuno sforzo umano potrà mai soddisfare e si avvera soltanto per grazia? Tutto il buio di questo viaggio e di questa poesia dolorosa erano forse necessari per riaffermare la realtà di una luce gloriosa che arriva nonostante noi, nonostante “i minchiàti ca facému, semp’i stissi”? (gli errori che facciamo, sempre quelli). Anche a questo servono i poeti.

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