“Scriveva il romanzo della casa a mano, su piccoli quaderni, e anche questo gli provocava dolore e fatica. Per lui il quaderno era sempre stato strumento irrinunciabile di lavoro. Scrivere era graffiare sulla carta, ricavarne senso. Scrivere era una forma del lavoro, della fatica del lavoro, come la dura terra solcata dall’aratro e dalla zappa. Sapeva che non c’è pacificazione nella scrittura ma solo necessità”.



Il diario che il poeta Sebastiano Aglieco scrive della ricerca della casa da abitare che lo ha accompagnato per tutta la vita si muove tra questa consapevolezza della scrittura come necessità e la certezza, conquistata alla fine della ricerca, che l’avere scelto “non una casa finita, ma una casa da finire, un rovello che prima o poi si sarebbe sciolto” sono in fondo gli aspetti di un unico destino a cui il poeta si sente chiamato dentro il grande lavoro del mondo.



Aglieco è un poeta che sceglie qui di raccontare in prosa, in un piccolo libricino di cento pagine, una storia di amore e di dolore che è qualcosa di più che una semplice erranza attraverso case diverse che hanno segnato le età della sua vita. Racconta le case della sua infanzia siciliana, la scoperta delle sue radici dentro case che sono volti presenti, partenze, addii, ferite. Ci fa entrare nelle case della sua giovinezza inquieta dentro un mondo quasi ostile di metropoli che, mentre accolgono, sembrano allontanare. Racconta la costante presenza del desiderio di una casa che diventi infine la sua casa e che sembra finalmente trovare compimento in un vecchio quasi-rudere che sta ai piedi delle colline dentro il quale lui vede finalmente quello che cercava.



E Aglieco racconta facendo quello che sa fare un poeta: mette sotto la luce del suo sguardo le cose, ma non tratteggia un quadro impressionistico. Del mondo piccolo che incontra, delle cose e dei muri, degli attrezzi e delle bestie fa sentire la voce, fa cogliere l’intimità segreta. Così questo Casa delle lucertole (Libraccio Editore, 2020) si manifesta lentamente e potentemente per quello che è: un diario di viaggio e insieme un diario intimo in cui le case di cui si parla altro non sono che “la parte più intima di noi stessi, il luogo in cui ripararsi dai disastri e dalle intemperie della vita. L’essere stesso è la casa, le sue fondamenta, il suo desiderio di durare o di lasciarsi andare” come lo stesso poeta avverte nelle righe iniziali del suo racconto.

Ci sono passaggi di questa narrazione che rivelano squarci di una tenerezza infinita e di una durezza feroce di questo essere dentro il quale ci muoviamo e del quale la casa altro non è che la piccola rappresentazione che noi siamo in grado di dare. Ma bisogna avere occhi e cuore per accorgersene. E Aglieco ha occhi e cuore capaci di farlo, allenati da una vita di poesia, della sua poesia, alla cui lettura questo libro decisamente rimanda. E in fondo in questo libro il poeta è come se confessasse, una volta di più, il suo essere disarmato di fronte all’accadere, all’essere nella sua manifestazione. Proprio nell’ultima parte del libro, in cui assistiamo alle lotte che il poeta-costruttore compie per abbattere o raddrizzare muri o per allontanare animali, per segnare il suo confine dentro questo nuovo mondo, noi  percepiamo che se di raggiungimento dell’obiettivo si può parlare, se di vittoria si può parlare, essa non consiste nello sconfiggere ogni avversità o intoppo che incontriamo. Piuttosto, come accade con la lucertola che il poeta alla fine accetta di accogliere nella sua casa, è appunto nell’umile riconoscimento di un’alterità irriducibile che avviene quella felicità che era all’origine del peregrinare. Non a caso nell’ultima pagina del libro troviamo il poeta che sull’aia della casa recita a voce alta l’elegia di Rilke: “E noi che la felicità la pensiamo/ in ascesa sentiremmo la commozione/ che quasi ci atterra sgomenti/ per una cosa felice che cade”.

La casa splende nella sua umile approssimazione sotto lo sguardo del poeta e noi impariamo, con Aglieco e come voleva Saint-Exupéry, che “quando un mistero è così sovraccarico non si può che ubbidire”. Impariamo che il desiderio di una casa “c’entra con il nostro desiderio di durare”. E che la casa, anche quella che ci ha scelto e che poi noi abbiamo scelto e costruito con le nostre mani non ci potrà “contenere del tutto” perché noi siamo abitati dall’infinito, siamo la sua casa.