La capacità della donna di prendere in mano la penna e scrivere poesie, come hanno sempre fatto gli uomini, costituisce la via maestra della sua emancipazione e della sua autoconsapevolezza. La scrittura, infatti, rompe il silenzio e rappresenta il riscatto, a livello espressivo, della privazione di identità che per secoli ha caratterizzato la figura femminile, e della sua mancanza di libertà.



La donna scrittrice è capace di guardare in se stessa, di parlare di sé, dei sentimenti, del dolore, dell’infelicità; considera il linguaggio poetico come una sorta di specchio magico in cui riflette la sensibilità di tutte le donne e rivela le zone più segrete e intime dell’essere umano. La scrittura femminile si distingue da quella maschile perché nasce da un’affettività, da una sensibilità, da un intuito che sono soltanto patrimonio dell’anima femminile: la parola della donna è in grado di cogliere soprattutto gli aspetti inesplorati dell’esistenza e non si sofferma su un’astratta gerarchia di valori e conoscenze.



È l’esperienza poetica vissuta da Alda Merini, nata il 21 marzo 1931 e morta il 1° novembre 2009. Per la poetessa milanese i versi sono il luogo in cui esprimere i suoi sentimenti, il suo stato d’animo; sono lo spazio in cui si sente libera rispetto ad un mondo che fa difficoltà a comprenderla. La poetessa riesce a far emergere la voce dell’inconscio femminile, un senso riposto all’interno dell’universo verbale fatto di parole, suoni, ritmi e immagini; dà rilievo al punto di vista intimo della donna, al modo inconfondibile e profondo di vedere la realtà e il mondo.

La poesia è per la Merini una sorta di “stanza tutta per sé”, come l’avrebbe definita Virginia Woolf (Una stanza tutta per sé è il titolo di un saggio della scrittrice londinese del 1929 sull’emarginazione delle donne). La stanza della poetessa milanese è il luogo dell’osservazione e della meditazione che la pagina scritta rivela e conferma e con cui la scrittrice ha proposto finalmente il suo punto di vista al femminile.



Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
(A. Merini, in Vuoto d’amore, 1991)

Intervistata dal giornalista Luciano Minerva, la Merini dichiara ancora: “Il 21 marzo è la festa mondiale della poesia, ma il 21 come inizio della primavera è un caso, primavera è folle perché è scriteriata, perché è generosa. Però incontra anche il demonio. E io l’ho incontrato il demonio. Era il manicomio”.

Nella follia “scriteriata” della primavera, che si annuncia all’improvviso e tutto travolge, la poetessa dei Navigli sembra riconoscere se stessa; nei versi riflette sulla sua pazzia e si domanda perché nascere folle, “aprire le zolle”, ossia essere fuori dagli schemi, possa suscitare scandalo. “Aprire le zolle”, però, significa anche rompere la terra per far emergere qualcosa di nuovo, la vita. La follia della poetessa non è qualcosa di oscuro, ma è qualcosa di vitale, che l’ha portata ad essere l’artista che tutti noi conosciamo ed amiamo. Per questo motivo, la preghiera di Proserpina per Alda Merini è la poesia che appare come una forma di riscatto dalla drammaticità e dall’insensatezza dell’esistenza.

All’età di 16 anni viene internata per un mese in una clinica psichiatrica dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. In seguito si sposa e la situazione si aggrava, dopo la seconda gravidanza. La Merini non si sente compresa, soprattutto dal marito. Sarà, infatti, proprio lui a decidere di internarla di nuovo. La stessa Merini nel libro L’altra verità afferma:

“Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per cosa riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa ed io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici…improvvisamente… tutti i parenti scomparvero”.

Lo scambio continuo e suggestivo dei linguaggi e dei livelli – dalla carne all’anima, dallo spirito alla natura – alimentato dalla durissima esperienza biografica, dai bruschi transiti dalla lucidità alla follia, costituisce il fascino intenso della sua poesia:

Manicomio è parola assai più grande
delle oscure voragini del sogno,
eppur veniva qualche volta al tempo
filamento di azzurro o una canzone
lontana di usignolo o si schiudeva
la tua bocca mordendo nell’azzurro
la menzogna feroce della vita.
O una mano impietosa di malato
saliva piano sulla tua finestra
sillabando il tuo nome e finalmente
sciolto il numero immondo ritrovavi
tutta la serietà della tua vita.
(A. Merini, da La Terra Santa, 1983)

Dal momento del suo internamento la donna trova nella scrittura l’unico strumento per esprimere la sua “ribellione umana”. Infatti, afferma:

Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
(Alda Merini, La Terra Santa)

La malattia e il dolore non sconfiggono la poetessa. Da questa terribile esperienza, infatti, fioriscono i suoi versi più belli che invitano la donna a sorridere, a continuare il proprio cammino. Per la Merini solo la donna ha la capacità di rialzarsi continuamente e diventare un raggio di luce per tutti:

Sorridi donna
sorridi sempre alla vita
anche se lei non ti sorride.
Sorridi agli amori finiti
sorridi ai tuoi dolori
sorridi comunque.
Il tuo sorriso sarà
luce per il tuo cammino
faro per naviganti sperduti.
Il tuo sorriso sarà
un bacio di mamma,
un battito d’ali,
un raggio di sole per tutti.”
(Alda Merini, Sorridi)

Vorrei concludere con un’espressione di Pierre-Auguste Renoir, affidata al giovane Henri Matisse, perché riassume quanto ho tentato di dire a proposito della poesia della Merini: “Il dolore passa, ma la Bellezza resta”. Con questa espressione l’artista chiarisce il motivo per cui, vecchio, malato e sofferente, continui a dipingere.

La sublimazione, nella poesia della Merini, sovrasta la psicologia e qualunque dramma esistenziale di un’anima infelice: “È un fatto: la poesia contiene una felicità che le è propria, qualunque sia il dramma che essa debba illuminare” (G. Bachelard, La poetica dello spazio).

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