Alcuni libri vanno assolutamente letti. Sono intrisi nel dolore profondo e non nel solo inchiostro. C’è tanto da imparare, perciò, da chi ha il coraggio di mettere a nudo il cuore dell’uomo di fronte all’estremo. Svetlana Aleksievič, in Preghiera per Černobyl’ (edizioni e/o, 2022) ci guida in un drammatico percorso di conoscenza, attraversando tragedie esistenziali. Smaschera, innanzitutto, il mito superomistico tipico del nostro tempo: “l’uomo non vuole ammettere di non essere onnipotente”. E poi il vecchio modo di pensare della politica: “noi-loro, lontano-vicino”. Il disastro di Černobyl’ (Ucraina settentrionale), infatti, mette in luce, per la scrittrice premio Nobel, la strutturale vulnerabilità dell’uomo e la ristrettezza delle dicotomie antitetiche. Le nubi radioattive non fanno distinzione di età, genere o nazionalità. Sono una minaccia diretta, diventata nel 1986 fatto reale contro l’uomo. Ma per comprendere tutta la portata del dramma, bisogna ascoltare con attenzione chi ha vissuto l’esperienza del disastro, dovuto a errore umano, incompetenza e sottovalutazione del rischio. La catastrofe ha rivelato a tutti che l’uomo va verso una direzione sbagliata. Essa ha posto gli uomini di fronte a una realtà legata all’incomunicabile.



Si è verificata, infatti, una rottura definitiva tra due epoche. È crollato un mondo fondato sulla vecchia arroganza razionalistica e ideologica. E questo fatto imponente ha posto con intensità nuova il senso da dare alla nostra vita. La domanda su chi siamo riguarda, ormai, con assoluta urgenza il presente e il futuro. Un passaggio importante di consapevolezza è perciò l’ascolto attento di chi ha visto in prima persona ciò che è accaduto.



C’è chi ha oltrepassato la linea dell’umano e ci racconta un altro mondo. Il liquidatore Arkadij Filin si sente come il Lazzaro di Leonid Andreev, resuscitato ma separato dai suoi. Partecipe di un mondo fatto di vodka, noncuranza della vita e miti. Egli ha vissuto in presa diretta non l’implosione, ma l’esplosione dell’URSS. Non l’inizio della fine di un impero per fatiscenza o stagnazione definitiva, ma il collasso decisivo per un gigantesco guasto distruttivo. Arkadij ha sotterrato la terra contaminata. Ha ucciso scarabei, ragni, vermi e di tutto con una compagnia di uomini mandati allo sbaraglio. Poche attrezzature, qualche consiglio e tanti slogan da ripetere. Il liquidatore, comunque, se ne fregava della vita, dopo essere stato lasciato dalla moglie. Cercava la morte e un funerale a carico dello Stato.



E poi troviamo la storia di chi è stato costretto a fuggire, prima dal Tagikistan e in seguito da Černobyl’. Una vita in fuga da una terra che crolla sotto i piedi o che muore per le radiazioni. Disordini e guerra a Dušanbe, prima. Tutto in subbuglio e nel cuore di una catastrofe, dopo. Una vita senza patria, perciò, in cerca di un non so dove.

La scrittrice ci fa sentire anche il palpito affannoso e allo stremo di chi si è sacrificato, come i tanti pompieri accorsi per salvare altri. E ci fa toccare con mano l’amore ostinato, incosciente, incondizionato di Ljudmila Ignatenko che vuole essere accanto al marito morente, nonostante tutto e tutti. L’uomo che ama è radioattivo, ma per lei è “solo Lui”. E lui è per sempre. La sua non è devota cura per l’amato, ma adesione totale al suo destino, fino alla perdita della figlia.

Non manca, poi, il monologo solitario propagandistico. L’autore si nasconde nell’anonimato e difende il potere del popolo, il potere sovietico. Il disastro di Černobyl’ è da imputare ai democratici e alla CIA. Ma il potere comunista tornerà e i colpevoli reali, cioè coloro che hanno macchinato tutto, saranno puniti.

C’è, tra le tante voci scosse, quella del soldato che rimpiange di non essere morto ammazzato in Afghanistan. La guerra visibile può essere combattuta ad armi pari, mentre la distruzione invisibile non ha difese sufficienti. Un nemico che si vede è sempre preferibile a un oscuro assassino. Una morte immediata per una pallottola in fronte, infatti, è diversa dalla fine di un amico diventato nero come il carbone.

Parla anche la donna che non sa più di dov’è: mamma ucraina, papà russo, nata in Chirghisia e sposata a un tataro. Una nuova specie senza radici che calca la terra senza vita futura.  Černobyl’ infatti è “una guerra che va oltre qualsiasi guerra. L’uomo non ha via di scampo. Né sulla terra, né sott’acqua, né in cielo”.

Aleksievič ci fa vedere, insomma, tanti volti schiacciati da un evento grande e terribile. Hanno conosciuto la vita post nucleare: una sopravvivenza ferita per sempre. Sono testimoni tornati da ciò che non deve accadere.

Una piccola luce di speranza, infine, oltrepassa la nebbia del disastro. Arriva, in modo imprevisto, dal monologo di un nomade apolide. Questi vaga con un peccato grave sulla coscienza, per fare penitenza. Ricorda a tutti con le sue parole che l’uomo sta in piedi per elevare la sua preghiera a Dio, per mendicare la vita. E nota poi che, curiosamente, non esistono colpevoli della tragedia di Černobyl’. Nessuno ha sbagliato, nessuno ha peccato: ingegneri, scienziati militari, tecnici o partito. Tutti a posto, tutto in ordine: un incidente, non una colpa.

I suoi documenti sono stati sequestrati dalla milizia. È stato picchiato sulla testa perché vagabondo, ma lui è “Nikolaj, servo di Dio… e adesso uomo libero”.

Ora, stranamente, uomo libero, dopo l’umiliazione e dopo la spoliazione dell’identità.

La scrittrice sembra sussurrare nel nostro profondo che in questo tempo ci vogliono uomini liberi e al servizio di un Altro, come Nikolaj, per affrontare la rottura di un’epoca e i guasti al nucleo dell’umanità.

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