Esiste una figura, della storia antica o moderna, che possa reggere il paragone con Alessandro Magno? Molto probabilmente, no: attorno all’Alessandro storico sono fioriti racconti, dal tono spesso favoloso, che hanno permeato non solo il mondo antico, ma anche tutto il Medioevo occidentale; e, per molti versi, l’alone leggendario che circonda il personaggio regge ancora l’urto del tempo.



Assai coraggiosamente Franca Landucci, docente di epigrafia greca e di storia economica e sociale del mondo antico, presenta ora Alessandro Magno (Salerno editrice, 2019), una biografia che racconta la vita di colui che il sottotitolo definisce “sovrano ambizioso, guerriero invincibile; il più grande conquistatore di tutti i tempi”). Ne parliamo con l’autrice.



Professoressa Landucci, da dove le è venuta l’idea una biografia di Alessandro? Non è un argomento spinoso, sin troppo frequentato?

Questo libro in realtà arriva dopo quarant’anni di studio, nei quali, a partire dai successori di Alessandro, dai diadochi, sono passata a studiare Filippo II, il padre di Alessandro, un politico molto sottile, per certi versi più del figlio, al di là di come recentemente sia stato rappresentato (penso alla pellicola di Oliver Stone del 2004): è stato quindi naturale ora passare a occuparmi di Alessandro stesso. In italiano, in realtà, non ci sono biografie recenti di Alessandro: anche quella di Mario Attilio Levi è ormai datata; mentre nel mondo anglosassone quello di Robin Lane Fox è un buon volume, completo ed equilibrato.



Nel suo volume lei affronta, com’è ovvio, il tema della visita di Alessandro all’oasi di Siwah e del relativo oracolo che qui avrebbe ricevuto: di tale episodio le fonti storiche danno letture molto diverse.

Come è stato di recente sottolineato da Luisa Prandi, la tradizione narrativa su quello che fu un vero e proprio pellegrinaggio all’oasi di Siwah si divide in modo abbastanza netto in due filoni. Del primo fanno parte coloro, come Strabone e Arriano, che citano gli storici  che avevano partecipato alla spedizione di Alessandro (Callistene, Tolemeo e Aristobulo: essi danno testimonianze concise e povere di particolari, soprattutto per quel che concerne la consultazione dell’oracolo, quasi che negli anni di Alessandro l’evento non fosse stato oggetto di eccessiva propaganda.

E del secondo filone?

A questo appartengono invece autori come Diodoro, Giustino e Curzio Rufo, i quali, rifacendosi a storici che non avevano partecipato alla spedizione, come Clitarco, danno descrizioni molto più ricche, soprattutto per quanto concerne la consultazione dell’oracolo e le sue risposte, con l’effetto di sottolineare fortemente l’investitura di Alessandro come figlio di Zeus, vendicatore dell’assassinio di Filippo e dominatore del mondo: tutti dati, dunque, costruiti da storici non contemporanei di Alessandro.

Altro punto che ha molto colpito gli autori letterari, e non solo gli storici (penso a Pascoli ancora a inizio Novecento) è la decisione di Alessandro di fermare la sua marcia verso est. Nell’estate del 326 la via dal fiume Idasi (odierno Beas) all’Idaspe (l’odierno Jhelum) segnò l’inizio del ritorno: una decisione che, lei ipotizza, non fu semplicemente dovuta alla stanchezza e al rifiuto dell’esercito, ma che in realtà era anche e soprattutto frutto di una riflessione di Alessandro stesso.

Sì, perché il grande problema dell’esercito di Alessandro è comune anche agli eserciti moderni, e va individuato nella logistica. La sua difficoltà naturalmente diventava sempre maggiore mano a mano che ci spingeva più avanti. Quello cui era arrivato Alessandro era però, di fatto, un confine naturale piuttosto evidente, e una spia dell’intenzione di Alessandro sta, forse, nel fatto che nella zona dell’attuale Punjab egli lasciò sul trono i sovrani già regnanti. Senza contare che, inoltrandosi Alessandro sempre più a est, era sempre più difficile controllare i territori a ovest: di fatto, la lunga permanenza del re al di là dell’Hindu Kush aveva incoraggiato molti satrapi di origine iraniana, ma anche molti generali macedoni rimasti più a occidente, a sentirsi liberi da vincoli di obbedienza e di subordinazione che avevano bisogno, invece, di essere rinsaldati con una certa frequenza. Un tale comportamento non poteva essere tollerato da Alessandro, che non ebbe altra scelta se non quella di far sentire con forza la propria autorità.

Veniamo ora alla morte di Alessandro, un capitolo sul quale sono stati versati fiumi di inchiostro, con ipotesi disparatissime e, spesso, molto fantasiose.

Di sicuro noi sappiamo che Alessandro spirò nella notte fra l’11 e il 12 giugno del 323 a.C., come ci è testimoniato inoppugnabilmente da alcuni documenti cronografici babilonesi. Per il resto, le testimonianze più antiche sulla morte di Alessandro si dividono in due gruppi: autori che dichiarano di seguire il racconto delle Efemeridi (una specie di resoconto giornaliero della spedizione, redatto, su ordine di Alessandro, dal suo segretario Eumene di Cardia), come Plutarco e Arriano; e autori che non lo seguono (Diodoro, Giustino e Curzio Rufo). Elementi comuni alle due tradizioni sono solo la partecipazione di Alessandro a un banchetto organizzato da Medio di Larissa, e lo stato patologico in cui versò per alcuni giorni prima di morire. Secondo il racconto attribuibile alle Efemeridi, il malessere di Alessandro si manifestò in modo strisciante, come una febbre progressiva che lo ridusse presto all’afasia, mentre l’altro nucleo di testimonianze parla di un dolore lancinante che si manifestò già durante il banchetto e che continuò a tormentarlo, ma che non gli impedì di proferire ultima verba. Le ipotesi quindi sono state moltissime, dalla pancreatite a una polmonite fulminante, aggravata dal clima. Di recente, una studiosa neozelandese, K. Hall, ha addirittura ipotizzato che Alessandro sia spirato per una grave malattia, la cosiddetta Sindrome di Guillaume-Barré, che induce nel malato una progressiva paralisi, ma per alcuni giorni ne lascia intatte le facoltà mentali; pertanto, secondo questa studiosa, non è da escludere che la morte di Alessandro fosse stata dichiarata quando egli era ancora vivo e vigile, anche se ormai incapace di muoversi e di parlare. Questo potrebbe spiegare come mai per almeno sei giorni non fossero stati visibili sul suo corpo segni di decomposizione, un fatto strano dato il clima caldissimo di Babilonia, e che sarebbe anche la prova, come dice Curzio Rufo, che il re non era stato avvelenato.

Lei è comunque scettica sull’ipotesi dell’avvelenamento.

Avvelenare un personaggio come Alessandro non doveva essere affatto semplice, per prima cosa dal punto di vista pratico: era difficile a quel tempo essere sicuri che il veleno facesse effetto, solo sulla vittima designata e senza destare sospetti: noi non sappiamo se Alessandro fosse il solo a toccare i cibi che avrebbe mangiato o se qualcuno glieli assaggiasse. Ma, al di là di queste considerazioni, ciò che rende scettici sul sospetto di avvelenamento è il fatto che questa voce comincia a circolare tardi, non a ridosso della malattia e della morte del re, ma solo cinque anni dopo, quando Olimpiade, la madre di Alessandro, ritorna in Macedonia dall’esilio in Epiro, appoggiata dal nuovo reggente del regno, e accusa il defunto Antipatro di averne ordito l’assassinio, proclamando di avere violato la tomba di Iolla, figlio di Antipatro, per vendicare l’uccisione di suo figlio Alessandro. E dopo la morte di Olimpiade, bruscamente voluta proprio dal figlio di Antipatro, Cassandro, fu il re Antigono, come accenna Plutarco (che ricorda la versione dell’avvelenamento per respingerla immediatamente), a dare nuova diffusione all’ipotesi che Alessandro fosse perito per veleno, proprio per screditare l’erede di Antipatro, Cassandro, nel frattempo divenuto signore della Macedonia. Del resto, anche Arriano, altra fonte importantissima per la storia di Alessandro, riporta la voce dell’avvelenamento, ma quasi solo per dovere di cronaca.

E delle ultime parole di Alessandro, che cosa possiamo dire? La tradizione ricorda che, interrogato su chi dovesse essere il suo successore, rispose enigmaticamente “il migliore”; Mary Renault, autrice di un romanzo su Alessandro, Il ragazzo persiano, ipotizza che in luogo di kratisto si dovesse intendere “Kratero”, cioè Cratero, e non solo come reggente, quale fu effettivamente nominato: è possibile o si tratta di una mera fantasia letteraria? In fondo, secondo Plutarco, fu proprio Cratero a fornire ad Alessandro quelle informazioni che lo portarono a giustiziare Filota e Parmenione, dunque egli era un fedelissimo del re.

Questa ipotesi di una scelta di Alessandro a favore di Cratero mi pare molto fantasiosa per un motivo fondamentale: negli ultimi tempi della sua vita Alessandro aveva con insistente pervicacia cercato di integrare pienamente i vincitori Macedoni con i vinti Persiani e in questa sua azione aveva trovato l’opposizione dei Macedoni più tradizionalisti, tra i quali andava annoverato Cratero stesso… tanto è vero che il sovrano aveva deciso di rimandarlo in Macedonia, ufficialmente per riportare in patria i veterani appena congedati e, una volta arrivato a destinazione, prendere il posto di governatore già affidato all’ormai anziano Antipatro, che avrebbe dovuto raggiungere Alessandro a Babilonia con truppe fresche appena arruolate. Dubito quindi che il re potesse pensare proprio a Cratero come a colui che meglio di altri avrebbe potuto continuare la sua opera.

Silvia Stucchi