Giornalista e musicista, Giuseppe Ciotta appartiene per età e passione alla generazione X, quella del grunge, quella di Kurt Cobain e di Seattle. L’ultima grande rivoluzione del rock, gruppi che hanno rilanciato questa musica in uno dei suoi tanti momenti di scolorimento, ma al quale non sono succedute rivoluzioni altrettanto potenti. “In catene, i giorni di Layne Staley e gli Alice in Chains” (Chinaski edizioni, 349 pagine, 22 euro) è il suo primo libro ed è dedicato, delle tante band di quel movimento, a una delle meno conosciute, almeno in Italia, dove è il primo a occuparsene. Non che anche gli Alice in Chains non abbiano goduto di un grande successo internazionale, ma rispetto a Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam, sicuramente sono rimasti un po’ in disparte, nonostante di quella scena siano stati i primi a ottenere successo.



Ciotta, che collabora anche con la nostra testata e il quotidiano La Sicilia, è giornalista e scrittore serio, non si accontenta come spesso succede in Italia (anche per mancanza di fonti dirette quando come in questo caso ci si occupa di artisti d’oltreoceano) di notizie rimaneggiate, ma scava in profondità, ricerca in prima persona, analizza a fondo, come ogni scrittore dovrebbe fare. Ecco dunque un ponderoso volume frutto di ricerche in loco, gli Stati Uniti d’America, una narrazione accurata e appassionante, mai leziosa o auto referenziale. Da Seattle a Los Angeles, Ciotta ha incontrato molti sopravvissuti dell’era grunge, amici e colleghi di Staley, li ha intervistati, ma non solo. Nel libro viene ricostruita con cura quella scena musicale, i locali, le band, i personaggi. Non manca l’analisi critica e testuale di tutte le canzoni del complesso; le curiosità e i dietro le quinte; la più ampia rassegna di concerti e rarità audio/video della formazione col suo storico frontman; un archivio di fonti e una bibliografia che abbracciano quarant’anni di rock.



Come quasi tutti i gruppi di quella scena, anche gli Alice in Chains hanno avuto una storia maledetta, con la morte del frontman Layne Staley come successo con Kurt Cobain e Chris Cornell. La maledizione di Seattle: giovani troppo insicuri, deboli, mancanti di figure e di ideali di riferimento. Stanley, vittima di una tossicodipendenza molto forte, addirittura viene scoperto, deceduto per overdose, dopo quasi due settimane dalla morte. Solo e dimenticato da tutti, dopo aver rilasciato un’ultima intervista nel febbraio 2002, fu trovato cadavere nel suo appartamento il 19 aprile, ucciso da una micidiale mistura di droga, lo speedball. Gli Alice in Chains avrebbero ripreso a fare dischi e concerti due anni dopo, ma senza di lui non sarebbe stata la stessa cosa.

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