“Babbo mi dicono che la nostra civiltà sta tramontando”. È il verso finale del testo che fa da prologo a questo doppio libro di Antonio Alleva, Cronache di fine Occidente. La collina del Dingh (puntoacapo, 2023), un dittico che, come recita il titolo stesso della poesia, costituisce una “prova d’esame con ultimo appello”. Un ultimo appello concesso a un mondo in cui si assiste a “un eterno distruggere”. Come dice nella sua nota introduttiva il poeta Lorenzo Gattoni, ci troviamo di fronte a uno sguardo che abita il presente e la storia con la chiara consapevolezza di una crisi che non solo investe la società a diversi livelli, ma che mangia via dal cuore dell’uomo ogni resistenza, ogni desiderio di bellezza e di felicità che di quel cuore dovrebbero essere elementi costitutivi. Occorrerebbe “un buon custode che mantiene viva la fiamma”: così suggerisce Raymond André, altro poeta convocato da Antonio Alleva all’inizio del suo viaggio poetico.
A una prima lettura sembra però che la voce di Alleva in questo primo libro non riesca a farsi strumento di questa custodia: prevalgono l’amarezza, l’invettiva, forse anche lo scoramento. Al punto che dichiara: “vi domando controvento se salvare/ valga davvero la pena”. Perché allora scrivere? Perché se non esiste riparo o redenzione?
Ma è proprio quando Alleva si lascia guidare dai maestri e dai fratelli poeti – come li chiama lui – che riemerge invece la possibilità di quella custodia che pare essere il compito vero del poeta. Quando, sulla scia dei versi di Marco Munaro – “con questa luce viene la poesia/ che ha generato il mondo” – o di quelli di Umberto Saba – “Amai trite parole che non uno/ osava” –, Alleva scioglie il tono accusatorio e sanzionatorio del giudice, giunge a lasciarsi trafiggere da quella realtà che disperatamente continua a manifestare la sua sete di salvezza, attestandosi come un’esperienza che ancora fa “ballare il cuore”.
Anche dalla collina del Dingh il poeta vede la tragedia di un occidente che si scava un inferno di guerre, di lotte, di dimenticanza dentro il quale sprofonda sempre di più. Ma dentro la ricorrente domanda di un senso che appare sempre più lontano, lo raggiunge qui la grazia di una certezza semplice che lo investe, dopo le parole dei poeti, con la faccia, la voce e i gesti delle persone che lo accompagnano nella sua avventura. Il libro si popola di nomi, di ricordi e di una paradossale gioia estrema dentro “il vivere e il morire”, come confessa a Batì mentre dentro la chiesa guarda un Cristo sempre appeso e mai stanco di sanguinare, o mentre confessa il turbamento per la gente “che si inginocchia, prega e piange”. Da questo suo balcone sulla collina, dentro la sua casa allora si alza la sua parola come una benedizione sulle cose umili, povere e splendenti, “al viso aperto di un ennesimo giorno/ E che sia benedetto il vostro e il nostro”.
L’ultima parola della poesia non può essere una condanna, ma un inno: “Si sente un canto di bambini/ in questo Avvento spaesato dal sole/ e perdura dentro tutte le ore/ e proviene da mondi di lacrime e rovine… si sente un canto di nuovi bambini/ e perdura. Così l’eterno distruggere” delle pagine iniziali del libro, adesso davvero si completa con “l’eterno ricostruire”. E se, come scriveva nella poesia Tutto davanti a questi occhi, il problema sembrava quello “di uscire da questa razza”, qui, dalla collina del Dingh, il poeta finalmente sembra sconfessare se stesso: è il soffio di una comunione piccola e gentile che ci vuole, con “i sogni la pena l’utopia/ soffiati via dai nostri esili respiri”.
Come giustamente afferma Marco Munaro nella sua nota finale, questa gioia minima, questo colloquio con gli altri, conservato e custodito sempre dentro una scrittura commossa e però sorvegliata, testimonia il valore dell’uomo, attraversa la terra e il cielo, interroga e ama ogni singola cosa. Questo allora rimane – anche dentro la cronaca di un fallimento – il compito terribile e necessario della poesia che campeggia in questa duplice raccolta, malinconica e smarrita, amara e lucida che si chiude con l’immagine di uomini e donne trasportati dentro la musica di una bachata. Che ballano in un paesaggio di fisarmoniche e chitarre, di grano e di mare “senza più domandarsi/ chi siamo e perché/ e dove stiamo andando e se stiamo esistendo”. Mica per una dimenticanza, o per una disumana e banale superficialità, ma per un abbandono fiducioso al nobile gesto di vivere ancora, al mestiere misterioso di abbracciarla tutta questa vita che viene.
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