Caro direttore,
il varo del Recovery Fund approvato dal Consiglio europeo il 21 luglio scorso costituisce per l’Europa, come è stato riconosciuto da più parti, una svolta storica tale da farla diventare finalmente una comunità di destino. Essa risponde alla sfida della pandemia con una consapevolezza nuova, quella di non essere più solo un matrimonio di interesse, come si è spesso inteso il processo di integrazione europeo, ma un’istituzione finalmente politica, capace di operare scelte avendo come orizzonte ideale il bene comune della comunità europea.
Questo punto di non ritorno della sua storia, impensabile fino al più recente passato, mi riporta alla memoria la figura di Altiero Spinelli (1907-1986) e il suo impegno profuso, lungo tutto l’arco della sua attività politica, affinché l’Europa assumesse coscienza di sé come entità politica. In tal modo, mi piace ricordarlo, Spinelli fa parte di quella generazione di politici italiani che nel Novecento ci ha visti, nel bene e nel male, fungere da laboratorio politico di idee originali: si pensi a Sturzo, Gramsci, De Gasperi, Mussolini, Spinelli appunto.
La sua vicenda in particolare si iscrive nella natura stessa della politica intesa come realizzazione di ciò che apparentemente risulta impossibile, come ci ricorda Max Weber quando osserva: “La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica che il possibile non sarebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. Ma colui che può accingersi a questa impresa deve essere un capo. Non solo ma anche in un certo molto sobrio della parola un eroe”. Forse allora è appena il caso di ricordare brevemente quale tensione ideale e quale sacrificio eroico sono all’origine di quell’Europa che sta fiorendo sotto i nostri occhi.
Condannato nel 1928 a 16 anni di reclusione per attività antifascista dal Tribunale speciale, Spinelli giunse a Ventotene nel luglio del 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale, per restarvi confinato sino all’agosto del 1943. Saranno quattro anni drammatici ma fecondi nei quali, come ricorderà egli stesso, fece la fame, toccò il fondo della solitudine, scoprì l’abisso della rassegnazione; e, nello stesso tempo, apprese la virtù del distacco, il piacere di pensare pulito, l’ebbrezza della creazione politica, il fremito dell’apparire delle cose impossibili.
Non fu solo un pensiero nuovo quello che maturò nell’isola pontina, quanto piuttosto la nascita di un’esistenza del tutto nuova. “Quegli anni in quell’isola – ricorderà – si compì quella misteriosa cosa che i cristiani chiamano elezione. Tutto si ricompose in un disegno nuovo e sorprendente, la mia debolezza si convertì in forza, sentii che una nuova consonanza straordinaria si andava formando tra quel che accadeva nel mondo e quel che accadeva in me […] Compresi che in quegli anni, in quel luogo, nacqui una seconda volta; che il mio destino fu allora segnato che io assentii ad esso e che la mia vera vita cominciò”.
Decisiva, a tal fine, fu l’amicizia con l’economista Ernesto Rossi col quale lesse le critiche che Luigi Einaudi, all’indomani della fine della prima guerra mondiale, aveva mosso alla Società delle nazioni colpevole di inconcludenza. Spinelli iniziò allora a meditare sulla storia degli ultimi tre secoli, fino a comprendere che la catastrofe in corso non era altro che l’epilogo ultimo della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. Ebbe allora un’intuizione creatrice, mettere in atto un grande movimento di idee e di azione allo scopo di creare una federazione europea, “che sarà – scrisse – la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa”. Sorse così nell’agosto del 1941 con la collaborazione di Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, il cosiddetto “Manifesto di Ventotene”, il cui titolo recava: “Per un’Europa libera e unita”, con il quale egli gettò le fondamenta per un’Europa federale, nello stesso istante in cui su un’altra isola, a Terranova in Canada, Churchill e Roosevelt sottoscrivevano la Carta Atlantica ridisegnando i principi di un mondo nuovo.
Il manifesto di Spinelli non era semplicemente un progetto ideale di Europa come vagheggiato nei secoli precedenti da artisti, poeti e scrittori, ma un autentico progetto politico che aveva in Kant, Hamilton e Machiavelli i suoi ispiratori. Soprattutto grazie alla lettura di quest’ultimo, Spinelli aveva maturato la convinzione che la federazione europea non sarebbe mai stata il semplice frutto di una certa logica inevitabile, ma sarebbe nata soltanto attraverso il paziente lavoro di generazioni di uomini impegnati nella propaganda e nell’azione. Del resto, quanto la sfida risultasse “impossibile” Spinelli lo verificherà durante il resto dei suoi anni: dal fallimento della Ced, pensata insieme a De Gasperi per operare un salto di qualità federale nella struttura della Ceca appena nata, al progetto di Trattato votato dal Parlamento europeo nel 1984 e noto come Progetto Spinelli; progetto che per la prima volta introduceva la cittadinanza europea, il principio di sussidiarietà, la procedura di codecisione, ma che gli Stati decisero di ignorare.
“Ognuna di queste avventure – dirà Spinelli alla fine della sua vita – è terminata con una sconfitta dell’avventura stessa e mia”. Tuttavia, aggiunse: “La possibilità della sconfitta deve sempre essere accettata equanimemente all’inizio di ogni avventura creatrice. Bisogna sentire che il valore di un’idea prima ancora che dal suo successo finale è dimostrata dalla capacità di risorgere dalle proprie sconfitte”. E concluse, a mo’ di testamento: “chiunque si accinge ad una grande impresa lo fa per dare qualcosa ai suoi contemporanei e a sé, ma nessuno sa in realtà se egli lavora per loro o per sé, o per loro e per i suoi figli che lo hanno visto costruire ed erediteranno da lui, o per una più lontana non ancora nata generazione che riscoprirà il suo lavoro e lo farà proprio, o per nessuno”.
Nel momento in cui l’Europa in modo improvviso e inaspettato scopre la sua natura eminentemente politica e si accinge a scrivere una pagina di storia, un’intera generazione è chiamata a riscoprire il lavoro dei padri per farlo proprio, imparando anzitutto da loro la vera arte della politica, quella cioè di essere realisti desiderando l’impossibile.