L’articolo riprende la conferenza su Seneca che l’autore ha tenuto giovedì scorso a Brescia, ospite del “Mese letterario” 2019 organizzato dalla Fondazione San Benedetto.

Strano che a leggere pagine vecchie due millenni si ritrovi rappresentato precisamente il nostro tempo; che ci tocchi aprire dei libri di Seneca per sentirci inondati del coraggio che nelle nostre giornate latita: infatti “chi ha il coraggio di dire a se stesso la verità?”. I geni non si incontrano nella “folla”: li cerchi se ti senti fuori posto in mezzo all’”allegria dei cosiddetti fortunati”, che “pur fra i dispiaceri che rodono il cuore recitano la parte di uomini felici”; se ti sei accorto che “tutta la vita è una menzogna: accusala e riconducila alla verità”.



Quello che scrisse al suo amico Lucilio oggi ha nuovi destinatari: è a noi che sono state inoltrate le lettere di questo filosofo spagnolo, per il quale “ammettere i propri difetti è segno di sanità mentale”. Mentre cercava di “curare le proprie ferite”, poteva paradossalmente ritenersi “non il medico, ma l’ammalato”, forse perché – come osserverà venti secoli più tardi Italo Svevo – “la salute non analizza se stessa e neppur si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi”: a chi è convinto di star bene, cosa importa di sfruculiare la sua anima?



Troppo facile, dalle paludi del proprio benessere, “far finta di essere sani” e accusare di incoerenza chi parla di questioni immense, che ovviamente non è in grado di vivere. Ma soltanto gli incoerenti corrono dietro a un ideale, rispetto al quale non possono che trovarsi sistematicamente in difetto: “io non sono un saggio e non lo sarò mai”, ammetteva Seneca. “Non ho raggiunto la perfetta salute, né la raggiungerò”; eppure, “paragonato ai vostri piedi, io – che pure sono così debole – sembro un corridore”.

Cursor sum”: Seneca ha corso tanto, e noi possiamo ancora inseguirlo, alzandoci dal divano del nulla, strappandoci al cinismo di chi sbava dietro piccole soddisfazioni, e magari non si accorge che “il piacere cessa proprio quando diletta di più; e non ha molto spazio: perciò trascorre subito, viene a noia e si fiacca dopo il primo slancio, e quando comincia guarda già alla sua fine”.



Come rimediamo noi quando la noia divora il piacere? Ce ne scappiamo, illudendoci che variare ci salvi. Ci viene naturale quel che Pavese racconta nella Luna e i falò: “quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi”. E se fra quattro mura ci annoiamo, non sappiamo far altro che andar via: “se chiedi a uno di questi, quando esce di casa: ‘Dove vai, cos’hai in mente?’; ti risponderà: ‘Perbacco, non lo so; ma vedrò qualcuno, farò qualcosa’. Vanno in giro bighellonando senza mèta, cercando qualcosa da fare, senza alcun obbiettivo preciso, ma semplicemente a casaccio. Corrono vanamente e senza senso, come le formiche, che vanno su e giù per gli alberi, salgono e poi discendono, senza motivo. La gran parte della gente fa come loro; non a torto si potrebbe definire questa vita un irrequieto far niente”.

Sembra scritto nel terzo millennio (in fondo i problemi sono ancora quelli). Provarne tante non ci farà avanzare di un millimetro, se ci manca “un metro di giudizio vero e inalterabile”: c’è chi “non ha vissuto a lungo, ma è esistito a lungo”, e “non ha certo navigato molto, anche se è stato sballottato parecchio”. Possiamo scappare dove ci pare, ma “a cosa serve? Il nostro io ci sta sempre dietro e addosso, come un compagno insopportabile”. È con quest’io che Seneca ha fatto i conti per tutta la vita, perché “ci vuole tutta una vita per imparare a vivere”.

L’epistola 71 ci offre un metodo preciso: se vuoi decidere su un particolare, “volgi lo sguardo al bene supremo, l’ideale di tutta la vita”. Leggi, e ti senti trafitto: la tua freccia quale bersaglio punta? per che cosa spendi il tuo tempo? “Non sistemerà ordinatamente i singoli elementi della propria vita chi non ha ben chiaro davanti a sé la sua mèta più alta”. Da suggerire a chiunque si infogni nei dubbi su cosa fare: “per un navigante che ignori verso quale parte debba dirigersi, nessun vento è per lui quello giusto”.

Chi ci aiuterà a correre verso questo ideale? “Nessuno è di per sé abbastanza forte: occorre che qualcuno ci porga una mano”. Gli scrittori, senz’altro; ma anche qualcuno in carne e ossa: “scegli uno di cui ti sono piaciuti la vita e le parole e in particolare il volto, che lascia trasparire l’animo”. Qui giungiamo al culmine dell’insegnamento antico. Dove ci potrà guidare questo maestro? A non cambiare continuamente opinione, a non fluttuare a seconda dei venti: se “vivere non è una roba per gente delicata”, occorre “tenere l’anima pronta” a tutto, resistere ai colpi della realtà e “sopportare come uno scoglio solitario di fronte al mare, che le onde flagellano da ogni parte senza riuscire a smuoverlo e logorarlo nonostante l’assalto”.

Saggezza amara di chi sa di non poter “cambiare le circostanze”, a cui non resta altro che “cambiare se stesso”, considerando “tutte le sventure come prove” stabilite dalla “provvidenza”. Nobilissimo ideale di “constantia” e “tranquillitas”: se tutto appare instabile, “bisogna cercare ciò che non peggiora di giorno in giorno. Di che cosa si tratta? Dell’animo, però di un animo retto, buono, grande; come lo chiameresti altrimenti se non la divinità che alberga nel corpo umano?”. Siamo alla vertigine: “in ciascun uomo virtuoso (quale sia il dio non si ha certezza) abita un dio”. Ce n’eravamo accorti, in tanta fuga dall’io? Proprio qui si nasconderebbe l’orizzonte della vera saggezza: nell’“avere la debolezza di un uomo, la serenità di un dio”. Una corsa possibile?

(1 – continua)