Il Barocco, nell’immaginario collettivo, è spesso legato alle forme della sua espressione più nota e d’impatto, l’arte figurativa: forme curvilinee in continuo mutamento, colori e strutture rilucenti e rigogliose (pensiamo all’arte celebrativa di tante chiese romane ma anche torinesi), la ricerca spasmodica del bizzarro e del meraviglioso, il gioco continuo di luci e ombre (pensiamo a Caravaggio), il rigetto di qualsiasi elemento lineare o geometricamente perfetto. Fantasia e meraviglia, illusione ottica e originalità connotano la manifestazione sensibile di un’epoca che vuole allontanarsi dai modelli classici e “rigidi” dell’Umanesimo e del primo Rinascimento.
Non sempre si ricorda tuttavia che il dinamismo tipico dell’epoca barocca affonda le radici nella crisi profonda che emerge in tutta Europa a partire dal secondo Cinquecento. La tragica frattura tra protestanti e cattolici, nonostante il tentativo della Controriforma, mette in crisi le coscienze religiose di tanti, soprattutto fra gli uomini di cultura; le continue scoperte geografiche, così come quelle scientifiche (Copernico, Galileo, Keplero…) sgretolano l’antropocentrismo (e l’eurocentrismo) dell’Umanesimo e del primo Rinascimento; le guerre di religione dilaniano l’Europa, e con il sorgere degli Stati nazionali le identità politiche diventano muri innalzati l’una contro l’altra. L’epoca a cavallo fra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento sente squassate le fondamenta su cui era stata edificata (o su cui aveva creduto di poter resistere), e non riesce a trovare un valido punto di riferimento, unitario e sintetico, che vada a riempire il vuoto che sembra allargarsi a vista d’occhio.
Un’epoca che presenta molte affinità con il decadentismo di fine XIX secolo e inizio XX (non a caso frutto del crollo di un altro grande pilastro europeo, quello dell’Illuminismo), ma che molto ha a che vedere anche con la nostra. Per dirla con Giovanni Getto: “La civiltà barocca non ha più una sua fede e una sua certezza. […] La sua unica certezza è nella coscienza dell’incertezza di tutte le cose, dell’instabilità del reale, delle ingannevoli parvenze delle cose, della relatività dei rapporti tra le cose stesse”.
In questo contesto, è interessante notare come la fantasia creativa letteraria produca tre personaggi la cui diffusione, nei secoli a venire, sarà maggiore anche della fama stessa delle relative opere, e si trasformeranno in veri e propri simboli (arche)tipici. Si tratta dei tre maggiori miti della cultura moderna, forse degli unici miti della modernità oltre appunto a quello del poeta o dell’artista decadente: proprio all’inizio del XVII secolo infatti William Shakespeare mette in scena il suo Hamlet, Prince of Denmark (tragedia composta probabilmente fra il 1600 e il 1601, registrata nel 1602); Miguel de Cervantes manda alle stampe il primo romanzo moderno, la storia (o le avventure) dell’Hidalgo Don Quijote de la Mancha (1605, la seconda parte è del 1615); e il religioso Gabriel Téllez, sotto lo pseudonimo di Tirso de Molina, scrive El burlador de Sevilla, la vicenda di Don Juan Tenorio, nel 1616 per proporlo sul palcoscenico nel 1625 circa.
In tutti e tre i casi, gli autori rielaborano materiali e vicende popolari già esistenti; ma in tutti e tre i casi nei personaggi viene infusa una sottile inquietudine, un’ultima fragilità conoscitiva ed emotiva che riflette il dramma della crisi barocca. I tre personaggi si potrebbero considerare i simboli di tre possibili atteggiamenti di fronte a una crisi di significato che, nel Seicento come oggi, investa certezze e ideali cui il mondo si è affidato fino a poco tempo prima. E non si contano le riprese, le riscritture, i rifacimenti e i riferimenti ai tre personaggi in ambito letterario, artistico, filosofico e musicale. Per non parlare del campo della psicanalisi e della psicologia in genere, che si è spesso e volentieri accostato ai tre eroi per analizzarne comportamenti e azioni.
Amleto, il giovane principe di Danimarca, si presenta sulla scena pervaso da una dolorosa malinconia, alimentata dalla coscienza più o meno confusa che una profonda differenza corre fra ciò che “sembra”, e ciò che effettivamente “è” (Atto I, scena 2): non è un caso che egli sia da poco tempo rientrato dall’Università di Wittenberg, centro della Riforma di Lutero; e questo non ne fa tanto un intellettuale la cui razionalità combatte contro la tirannia e il potere, quanto piuttosto un figlio che, nel momento di vendicare l’uccisione del padre, è immobilizzato dall’ipotesi che la realtà non abbia alcun significato. Lo terrorizza constatare che “there is nothing either good or bad, but thinking makes it so” (Atto II, scena 2), e dall’altra parte i “bad dreams” che lo tormentano gli impediscono di rifugiarsi del tutto in qualsivoglia illusione, così come gli impediscono di scaricare tutta la responsabilità del male sulla crudeltà dello zio Claudio: di fronte a Ofelia egli ammette che, pur essendo indubitabilmente onesto, potrebbe accusare sé stesso “of such things that it were better my mother had not borne me” (“di tali cose, da pensar che sarebbe stato meglio mia madre non m’avesse partorito”) (Atto III, scena 1). La fragilità di Amleto si riverbera anche nel rapporto con l’ombra autoritaria del padre assassinato, una figura che nulla ha di paterno e che chiede una vendetta unicamente normativa, senza sfumatura alcuna di reale affezione.
Se Amleto è il dubbio paralizzante di fronte all’inconsistenza della realtà, don Chisciotte è forse l’estremo opposto, colui che non può accettare che la vita debba essere trascorsa senza ideali o che questi abbiano perso il loro valore, e anacronisticamente armato di tutto punto si lancia in una serie di avventure le quali, perché abbiano una propria entità, devono basarsi su una mistificazione accuratamente elaborata all’inizio e poi reiterata della realtà.
Don Chisciotte, affiancato da Sancho Panza, moderno Virgilio (non più “ragione” ma misera razionalità materialista), si costruisce forse consapevolmente un alter-ego che possa essere e sentirsi parte di una storia, di una narrazione, in un’epoca in cui ogni narrazione sembra svanire. E poco importa se la realtà farà sempre valere le proprie pretese sui due: per il cavaliere ci sarà sempre modo di rileggere la realtà a partire dalla propria impalcatura ideologica, rinnovando continuamente l’incantesimo (per usare un’espressione di Pietro Citati). Il desiderio è grande, il tentativo è nobile, non vivere nella mediocrità; e il contesto della Mancha e dei suoi abitanti, nel suo resistere di fronte all’immaginazione dell’hidalgo, non costituisce certo alcunché di attraente o di corrispondente rispetto all’impegno ideale del Chisciotte, anzi si presenta come la quotidianità più meschina e superficiale. Ma è giusto per questo perseverare nella propria illusione di cambiare le cose?
Don Juan, o Don Giovanni, è – in ultimo – il simbolo di chi sceglie di non scegliere. Il passaggio ossessivo da una conquista all’altra, da una burla alla successiva, è l’espressione di chi non vuole accettare i limiti che sempre la realtà pone all’esistente, di chi non vuole appartenere a una parte, a una particolarità, che sia una condizione o un rapporto. Non si tratta solo di sprofondare sé stessi nella distrazione e nella sensualità. Di fronte alla presa di posizione che sempre una crisi chiede, e di fronte all’inconsistenza che percepisce dentro di sé, Don Giovanni mira quasi inconsapevolmente a eternare l’istante temporale, avulso da qualsiasi tipo di storia o narrazione (il contrario del Chisciotte) e quindi svuotato di qualsiasi significato. Il divorare l’altro che caratterizza lo stile di vita di Don Giovanni è in qualche modo un’ipotetica soluzione al vuoto che incombe.
E non a caso il testo di Tirso sembra ricollegare con decisione questa violenta fragilità a un rapporto distrutto con il proprio padre (come ha individuato Claudio Risé nei suoi studi sul seduttore spagnolo), figura che in qualche modo si presenta a lui anche nelle vesti del Convitato di Pietra. Forse, la mancanza di una paternità che caratterizza tanto Don Giovanni quanto Amleto, l’incapacità di riconoscere non solo un rapporto fecondo con l’alveo della tradizione ma soprattutto di identificare figure che costituiscano un fondamento in cui ritrovare uno sguardo di speranza sulla realtà, esprimono sinteticamente un ulteriore elemento (o una causa) della crisi del Barocco.
In generale i tre personaggi, le cui opere ondeggiano tutte, per quanto in misura diversa, fra il tragico e il comico e le cui esistenze devono fare tutte i conti con il rischio della follia, tentano in modi diversi di relazionarsi con l’incombere di una sottrazione di senso della realtà.
In due casi su tre si aprono degli spiragli di luce. Al termine della tragedia shakesperiana, al culmine della propria ricerca, Amleto compare improvvisamente animato da una fiducia in una “special providence” (rimando agli studi di Piero Boitani su questo), chiara eco evangelica, piuttosto irrazionale in realtà ma almeno ipotesi di un significato nascosto tra le pieghe della realtà; e questo sarà ciò che gli permetterà di affrontare il duello finale.
Don Chisciotte dal canto suo rinsavisce misteriosamente, senza per questo ritornare nella mediocrità incredula e superficiale cui tutto intorno a lui sembra sprofondato, ma piuttosto deciso, di fronte alla prova supremamente eroica della morte, di non giocare più, “perché in momenti come questi l’uomo non deve prendersi gioco dell’anima”; e si ritrova ingenuamente ma sinceramente commosso di fronte alla misericordia di Dio, forse unico fra tutti quanti gli stanno intorno a conquistare un vero sentimento religioso perché unico ad avere il coraggio di attraversare il buio della lotta.
Chi non serba speranza alcuna è Don Giovanni: il rinvio della propria messa in discussione e la negazione di un significato e di una paternità conducono a una paralisi della libertà dalla quale non c’è (forse) possibilità di scampo.
È probabile tuttavia che Shakespeare, Cervantes e Molina non volessero comunicare innanzitutto risposte, ma suscitare domande nei lettori loro contemporanei: è questo uno dei grandi compiti della letteratura.