Stefano Graziosi, giovane esperto (classe 1990) in filosofia politica, scrive di esteri per diverse testate: Affari internazionali, Tgcom24, Studi Cattolici, La Verità, Lettera43, Gli Stati Generali; con Apocalypse Trump. Un presidente americano tra Mao e Andreotti (Edizioni Ares, 2019), ci presenta le linee-guida della politica del presidente Usa, a partire da un’analisi dettagliata della campagna elettorale che gli ha fatto conquistare la Casa Bianca.



Come sottolinea la Prefazione di Ferruccio de Bortoli, secondo il Washington Post il presidente degli Stati Uniti, la cui presenza sui social network è ormai capillare, direbbe ogni giorno almeno sei cose false, del tutto o parzialmente: ma questo non conta, perché, nell’era della “digidemocrazia”, il rapporto diretto tramite la Rete fra il leader e il popolo, identificato tout court come il “popolo dei followers”, si costruisce più sulle emozioni che non sulla ragione.



La modalità con cui Trump ha presentato se stesso nel corso della campagna elettorale è quella del candidato maverick, dell’outsider della politica, poco amato per la sua schiettezza dagli stessi repubblicani, considerato con condiscendenza o persino con irrisione dai grandi commentatori, irruento e poco malleabile di carattere, conosciuto dal grande pubblico soprattutto attraverso il programma The Apprentice. In realtà, a una più attenta analisi, le cose non stanno proprio così. Il sottotitolo del volume di Graziosi, “un presidente americano tra Mao e Andreotti”, infatti, azzarda due paragoni storici molto arditi, ma frutto di un’analisi attenta. Infatti, l’abilità di Giulio Andreotti nel trovare compromessi delicati, e spesso anche poco confessabili in un panorama politico per tanti versi instabile, può forse essere rintracciata anche nella capacità di Trump di adeguarsi, in modo camaleontico, alle più diverse situazioni (per esempio: prima a favore dell’aborto e poi contrario a esso; prima amico dei Clinton, e poi loro nemico).



Quanto al riferimento a Mao, come sottolinea de Bortoli, “la confusione sotto il cielo di Washington è spesso grande”, e ne approfitta Trump per sostituire rapidamente ministri e collaboratori; non si potrebbe pensare che questa sia, al pari della celebre frase di Mao, la “conseguenza di una lucida e (…) feroce ‘rivoluzione permanente’ per poter meglio gestire le leve del potere reale”?

C’è però un altro parallelismo, riconosciuto del resto da Trump stesso nel momento in cui prese la decisione di dedicarsi alla politica attiva, ed è con Silvio Berlusconi, un modello politico che l’Italia ha esportato. Del resto, come Trump, anche Berlusconi, una volta arrivato a Palazzo Chigi, non volle omologarsi ai canoni classici dell’uomo politico, e non volle smettere i panni dell’imprenditore di successo. Come Trump, anche Berlusconi era stato votato per quello che era, non per quello che doveva o avrebbe dovuto essere, e – proprio come avrebbe fatto anche Trump qualche anno dopo – dava voce a una larga fetta dell’elettorato che si sentiva esclusa dal sistema di potere tradizionalmente definito da partiti e sindacati.

Dunque, un fenomeno assolutamente da scandagliare e da capire meglio, cosa che il volume di Graziosi aiuta a fare senza schemi pregiudiziali o filtri ideologici, e sfatando anzi alcuni preconcetti, condizionati magari da aspetti estetici e comportamentali, che avevano anche determinato una campagna elettorale durissima, una delle peggiori che la storia americana annoveri, fitta di insulti, colpi bassi e rivelazioni di scheletri nell’armadio. Proprio durante le ultime fasi di questa campagna, nell’ottobre del 2016, Hillary Clinton tuonò contro il suo avversario Trump queste lapidarie parole: “Io sono l’ultima cosa che vi separa dall’Apocalisse”.

A voler ben guardare, non è che le competizioni per la conquista della poltrona presidenziale fossero state in passato esercizi pratici di galateo per educande. Ma, sottolinea Graziosi, simili schizzi di fango non si vedevano forse dal 1828: da quando, cioè, il popolaresco Andrew Jackson contese con John Quincy Adams, rappresentante di quell’élite socio-culturale che aveva fondato gli Stati Uniti. All’epoca, volarono parole grosse: il repubblicano Adams, in particolare, tentò di far passare il democratico Jackson, espressione della nuova borghesia rampante, affaristica e spregiudicata, per uno scriteriato, incolto e incompetente, che, se fosse diventato presidente, avrebbe sicuramente gettato la nazione nel caos. Addirittura, arrivò a dargli del “somaro”: ma Jacskon ci rise su, e da allora l’asinello è diventato il simbolo dei democratici. La strategia di Adams non funzionò, e a dispetto del suo curriculum politicamente eccellente, il presidente repubblicano si vide defenestrato dopo il primo mandato.

Completano il volume, dopo il quinto capitolo, due Voci Americane (Ron Paul, candidato alla nomination del Partito Repubblicano nel 2008 e 2012 e Matthew J. Franck, professore emerito di scienze politiche alla Radford University della Virginia), il che rende Apocalypse Trump una guida indispensabile per capire effettivamente, senza preconcetti, che cosa stia succedendo dall’altra parte dell’Oceano.