Viviamo in un tempo caratterizzato da importanti cambiamenti e da complesse vicissitudini nelle quali, a fianco del continuo incremento di progresso tecnologico, emergono con allarmante evidenza la diminuzione di attenzione per l’umanità propria e degli altri e, di conseguenza, la capacità di relazioni. Lo si riscontra anche all’interno del mondo della Chiesa cattolica. Alla drastica diminuzione di vocazioni sacerdotali e a un certo smarrimento diffuso nelle comunità dei fedeli si accompagnano negli ultimi decenni il diradarsi di costruzioni di nuovi complessi parrocchiali e di chiese e una sempre più diffusa dismissione di diversi edifici di culto appartenenti al tessuto storico del territorio italiano.
Questi dati di fatto stimolano a interrogarsi sul destino di gran parte del patrimonio culturale che testimonia una fede vissuta nel corso dei secoli da tutto il popolo cristiano; al tempo stesso ci si trova a riflettere sul significato dell’architettura religiosa e sul valore simbolico e comunicativo del suo spazio, concepito per suscitare o risvegliare in chi lo frequenta l’originaria capacità di entrare in rapporto con l’Assoluto. La progettazione dello spazio sacro resta uno dei temi più vivi e autentici nell’architettura di ogni tempo; è il momento centrale di verifica, un’esperienza dell’abitare riconosciuta nella sua realtà umanamente totalizzante.
Negli anni precedenti al Concilio Vaticano II, ma soprattutto in quelli successivi, non sono mancate voci significative che hanno voluto raccogliere la sfida ad affrontare a fondo la questione tutt’ora aperta del senso dello spazio sacro e dell’arte che lo esprime. Grazie al fiorire di ricerche, incrementatesi soprattutto a partire dagli anni Novanta, è emersa un’abbondante letteratura legata a studi sull’architettura liturgica che ha favorito l’operato di diversi architetti e artisti, poiché li ha orientati nell’affinare, in un tempo di modernità e sperimentazione molto spinte, progetti significativi per valore comunicativo, espressi in un linguaggio capace di essere narrativo.
Nell’architettura delle chiese cristiane spazio, tempo e azioni liturgiche sono connessi fra loro. I poli liturgici – altare, ambone, fonte battesimale, con tutti gli altri elementi che definiscono lo spazio – non sono componenti scollegate e mute rispetto all’unità dell’edificio: sono vere e proprie forme viventi, attivi luoghi di vita della liturgia, pertanto irriducibili a pura funzionalità. Tutte le complesse componenti di un progetto architettonico trovano, nella chiesa, occasione di espressioni del nostro rapporto con essa. Le riconosciamo e ne cogliamo il valore di guida all’esperienza di una fede vissuta. Scopriamo il significato del sagrato e del portale con valore di soglia. Sperimentiamo un senso del vuoto, del silenzio, del suono, della luce e delle gradazioni di ombra e penombra in immagini – tramite materiali e componenti costruttive, tramite segni dipinti o sculture o altro ancora – che ci accompagnano all’altare.
Di tutto questo è possibile vivere un’esperienza straordinaria all’interno di una chiesa. Essa ci narra la vita di un popolo di fede. Al tempo stesso consente di riconoscere l’alto valore iconico dell’architettura. Per raggiungere questa sensibilità occorre però liberarsi dalla pura percezione dei sensi e acquisire, attraverso un lavoro di ascesi, una profonda capacità di vedere attraverso un “digiuno della vista” come Pavel Evdokimov ha mirabilmente insegnato. L’occasione di questa breve riflessione, che accompagna da tempo il mio lavoro di architetto, è originata dalla lettura della recente pubblicazione del volume di Leonardo Servadio Architettura e liturgia. Intese, oltre i malintesi (Tab, 2023) del quale ho avuto modo di leggere in anteprima il manoscritto. L’autore è un giornalista che si è molto occupato di architettura religiosa collaborando nella redazione di riviste di settore e testate giornalistiche di importanza nazionale. In questo testo propone una lettura singolare sul rapporto che intercorre tra architettura e liturgia emerso sia negli anni immediatamente precedenti al Concilio Vaticano II che in quelli successivi fino ai nostri giorni, sui quali si sofferma in modo approfondito.
Arricchiscono il volume la prefazione di monsignor Giancarlo Santi, la dotta introduzione di Paolo Portoghesi e le post-fazioni di don Paolo Tomatis e don Valerio Pennasso. I molti spunti per ulteriori riflessioni e le ricche esemplificazioni aiutano alla comprensione dell’architettura delle chiese nel tempo presente. Interrogandosi sulla chiave interpretativa fondamentale delle chiese contemporanee, Servadio afferma che la loro bellezza “non deriva da un particolare estro artistico o arditezza formale ma dalla consonanza tra il corpo dell’edificio con la sua finalità liturgica”.
Spesso si sente parlare della bruttezza di molte chiese contemporanee se paragonate con quelle storicamente consolidate, ma gli esempi presentati nel libro si rivelano di eccezionale interesse e, a volte, di inconsueta bellezza. Nella diversità di forme, dimensioni, tecniche e materiali esse risultano in non pochi casi eloquenti nel contesto urbano. Notevoli e non pochi sono gli esempi di originalità progettuale dei singoli fuochi liturgici nelle chiese moderne valorizzati dall’autore. Benché di tipo specialistico, il volume può essere ritenuto un’utile lettura per quanti, a vario titolo, sono da tempo interessati a queste tematiche; risulta inoltre di immediata comprensione per chi desideri esplorare a fondo il delicato e profondo rapporto tra architettura e liturgia che vive nelle chiese cattoliche.
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