“La cifra della vittoria sulla mafia militare non è il numero di quelli che riusciremo a incarcerare, ma il numero di quelli che avremo tolto dalle sabbie mobili”. Nel momento in cui la repressione contro la malavita organizzata sembra funzionare e molti boss sono finiti in galera, l’affermazione del magistrato Sebastiano Ardita, da lungo tempo impegnato in indagini antimafia e oggi membro togato del Csm, smorza l’entusiasmo di quanti sbandierano i successi dello Stato. Anche perché, secondo il procuratore, non sono affatto perdenti “i metodi insidiosi della mafia nascosta”.
Nel suo recente volume Cosa Nostra S.p.A. (PaperFirst 2020), Ardita non solo presenta il nuovo volto della grande mafia “che incrocia il suo enorme fatturato con gli interessi dei colletti bianchi che governano multinazionali, enti e istituzioni politiche”, ma ci offre anche una testimonianza sofferta e convincente di un servitore della Giustizia che non si ferma alle apparenze. O ai numeri. E guarda alle persone: ai magistrati, anzitutto, e, poi, ai tanti giovani delle periferie vittime del reclutamento della criminalità organizzata.
Il libro, che sviluppa l’analisi già avviata in Catania bene (Mondadori 2015) sul modello mafioso divenuto dominante dopo le stragi del 1992, è anche una riflessione umanamente toccante sul lavoro di magistrati costretti spesso “dentro gabbie e ruoli che impediscono di dare pieno sfogo alla propria umanità”.
Non a caso alcune delle pagine più belle del libro, che contiene analisi acute e innovative sul fenomeno mafioso, sono proprio quelle in cui il procuratore racconta le storie di alcuni giovani che ha incrociato, a vario titolo, nel suo percorso. Come Carmelo, il ragazzo che avrebbe voluto fare il carabiniere ma non ha potuto raggiungere l’obiettivo perché figlio di un detenuto e perché ostacolato dal marchio del quartiere povero e malfamato in cui viveva. O come Patrick che, tredicenne, nel gennaio del 2013, scrive una lettera aperta al quotidiano La Sicilia, in cui racconta della sua drammatica scelta fra continuare a studiare e mettersi a lavorare e conclude: “Studio perché non voglio essere un animale, perché un animale non sa niente e agisce senza pensare, mentre io voglio essere libero”. E il magistrato commenta: “Per i giovani dei quartieri a rischio la passione per una vita che li veda protagonisti deve somigliare al desiderio di conquistare una donna: solo così può cambiare la loro esistenza”. Si fa strada così una diversa idea dell’antimafia. Una antimafia meno urlata, meno interessata a conquistare medaglie, prebende e titoli di giornali, e più attenta alla “questione sociale che sta all’origine della questione criminale”.
Paradossalmente, secondo Ardita, Cosa Nostra S.p.A., che si è finanziarizzata e vive nei salotti buoni, favorisce nelle periferie nuove vocazioni al crimine e crea nuovi mafiosi per coprirne altri; sfrutta gli arresti dei boss dell’ala militare per far dire che ormai la lotta è conclusa; e tenta persino di dare la scalata all’antimafia, per occultare la propria presenza o per trovare “luoghi di incontro ideali con le istituzioni”. La battaglia contro la mafia, dunque, è ancora tutta da giocare. Ardita ci offre un criterio per smascherare la falsa antimafia: quella vera non mira a “vaccinare la zona grigia” dove crescono i “rapporti tra imprenditoria, istituzioni e mondo criminale”, ma piuttosto si manifesta come “passione per gli altri, per i diritti, per il riscatto degli ultimi”. Non si può rimanere tranquilli, infatti, se in alcuni quartieri popolari delle grandi città del Sud la povertà e la disoccupazione crescono a dismisura, se la dispersione scolastica supera il 20% e se nella didattica a distanza una buona fetta di ragazzi delle periferie restano tagliati fuori divenendo potenziale manovalanza per la criminalità. Per battere la mafia e lavorare per la giustizia e lo sviluppo c’è bisogno veramente di politici e giudici appassionati al bene comune. E di educatori capaci di suscitare nei giovani un sano desiderio per “ciò che inferno non è”.