Il libro La banalità del male venne scritto da Hannah Arendt e pubblicato nel 1963. La Arendt, filosofa politica e perseguitata a sua volta dal regime nazista, aveva seguito il processo ad Adolf Eichmann per crimini di guerra ed evidenziato come quello che era stato un efferato criminale, nella vita quotidiana e familiare fosse una persona assolutamente “normale” e asimmetrica rispetto alla spietatezza che esercitava nel suo “lavoro”.



È possibile, si domanda la Arendt, che individui apparentemente normali e giudicati tali da esperti psichiatri possano rivelarsi in particolari circostanze criminali efferati senza il minimo senso di colpa? Quanto può essere potenzialmente diffusa quest’anomalia dell’animo umano?

L’importanza delle radici

La Arendt sosteneva che tali circostanze si possono verificare se mancano le radici, la memoria degli errori passati, il non ritornare sui propri pensieri e azioni, insomma la mancanza di un dialogo interiore con se stessi. “Gnōthi seautón” (conosci te stesso) era la massima esortazione incisa sul frontale del tempio di Apollo a Delfi. Devi conoscere la tua mente per capire il mondo e le persone che ti circondano, sosteneva Platone.



Sembra però che quest’indicazione si sia persa nei nostri tempi, rendendo tutti meno indipendenti nelle scelte della vita, privi di capacità critica e d’immaginazione, ma influenzati da un modello culturale invasivo e omologante che rende la massa una sorta di “plancton” in balìa delle onde e del vento, incapace di guardarsi dentro.

Così oggi quelle terribili domande ritornano insistenti e preoccupanti, perché ogni singolo giorno assistiamo, ormai passivamente, assenti come abituati alla “normalità” degli orrori, a crimini, efferatezze, corruzione e immoralità diffuse spesso commessi da persone assolutamente “normali”. Magari da imitare, con sistemi di controllo conniventi spesso latitanti o collusi.



Gli episodi atroci commessi da bravi e squisiti ragazzi nel carcere di Abu Ghraib, in quei Paesi dove era necessario portare la democrazia, ne sono l’evidenza; ragazzi che nei loro Paesi erano considerati amabili da tutti, incapaci di molestie e cattiverie, si sono trasformati in una banda di spietati torturatori. Si è detto che anche loro seguivano delle regole impartite dall’alto e dai vertici militari che, peraltro, non sono mai stati ripresi.

“Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e del nostro criterio morale di giudizio, questa normalità era molto più inquietante di tutte le atrocità messe assieme”, scriveva la Arendt; ma oggi è diverso?

Questo lacerante interrogativo rappresenta un pensiero di fondo del sociologo Zigmunt Bauman, che si domanda cosa sia il male; in sostanza, come mai le persone buone diventano cattive? Probabilmente è necessario tornare alle considerazioni della Arendt in merito alla perdita della struttura morale interiore, che è diventata labile e inconsistente, lontana dalle radici e senza memoria. Infatti, un comportamento morale presuppone una capacità interiore – il riflettere su se stessi – di capire quale azione sia un bene o un male e quindi di comportarsi di conseguenza, ma senza questa struttura interiore si diventa facili prede di comportamenti passivi i quali ci rendono schiavi di un ordine esterno che viene imposto da interessi superiori.

Per capire, dobbiamo guardare al modello socio-culturale che ha plasmato le nostre vite, in cui il pensiero unico tecnico-razionale si è affermato come verità incontrovertibile e l’economia come scienza morale.

L’illusione del progresso tecnico

La cultura tecnica-razionale dominante nei nostri tempi ci fa vedere solo il futuro come garanzia di successo e un sole che non tramonta mai; si dimentica del passato e degli errori fatti, ma così viene meno la memoria e la previdenza, che è la dote che ci distingue di più dagli animali. La techné ci ha distaccato dall’intimità di vere relazioni personali sentite, vissute e partecipate; eventi importanti nella vita come il concepimento, la nascita, la malattia e la morte sono ormai considerati solo meri eventi biologici. Le modalità relazionali sono virtuali, fugaci, fulminee e superficiali, fatte da un limitatissimo numero di parole; un modello culturale che scivola sull’onda molto più rapidamente del tempo che sarebbe necessario per scendere in profondità. Si forma una “non-cultura” che va rendendo sempre più sterile e asettico il rapporto interpersonale, uno zapping continuo che impedisce la riflessione e un dialogo interiore, nella sostanza sterilizza il senso della morale sociale in cui si diventa “tutti contro tutti”, ma non “tutti insieme per il bene comune”.

L’individuo deprivato della sua intimità perde la dimensione di “persona” e viene economicizzato: un uomo-non umano. La “banalità del male” rischia davvero di diventare una “normalità” e gli orrori passati non rappresentano un’unicità (Gunther Anders, L’uomo è antiquato).

Il progresso tecnico avrebbe dovuto affrancarci dai dolori e dalle miserie che limitano mortalmente la vita dell’uomo, invece non è stato così ma tutto il contrario: sono aumentate le disuguaglianze, la povertà, il degrado morale, la disoccupazione, l’insensibilità verso gli altri che ci espongono ai rischi descritti, definiti da Philip Zimbardo anche come L’effetto Lucifero (Cortina, 2008).

Allora tutto ciò che continuiamo a definire “crisi economica” dipende da un errato funzionamento delle tecniche dell’economia, da un tecnicismo esasperato che non riesce a ritrovarsi, oppure dal collasso di un modello socio-culturale? La disuguaglianza e l’immoralità sono problemi tecnici o culturali?

L’evidenza dei fatti è drammaticamente di fronte a tutti, ma queste “esternalità” negative, come dicono gli economisti, o “danni collaterali” come li definisce Bauman, nessuno vuole vederli.

In un tempo in cui si dovrebbe affermare il senso della solidarietà sociale e il ritorno anche a una dimensione spirituale dell’animo, i valori fondamentali di “uguaglianza, libertà e solidarietà” sembrano essersi dissolti nel vento, divorati da un nuovo totalitarismo pseudo-culturale.

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