Arvo Pärt è universalmente riconosciuto come una delle espressioni più significative della creatività musicale nel mondo contemporaneo. Certamente, la sua è una musica che non insegue le mode del facile consumo, perché coltiva il desiderio di riproporre il nucleo del sentimento umano più autentico e profondo – l’inquietudine indomabile, la nostalgia, a volte il grido lancinante che l’attraversa – non ricalcando i canoni fissati dalla storia plurisecolare dell’arte occidentale, ma riconfigurandone i contenuti dalla radice del loro terreno sorgivo, cioè dall’interno dell’esperienza che si sviluppa nella vita del presente, e dunque traducendoli nelle forme in via di sofferta incubazione, nei linguaggi abbozzati e mai chiusi, nei tentativi sempre problematici di approdo a nuovi orizzonti di valori e certezze tutti da riconquistare senza più potersi affidare ai lasciti di un passato glorioso abbandonato alle nostre spalle.
L’ultimo numero della rivista digitale Lineatempo, pubblicato a fine agosto 2023, ospita un prezioso intervento di Paola Mecarelli (Il suono infinito nella musica di Arvo Pärt) che può egregiamente servire per accostarsi a questa figura così singolare della scena musicale degli ultimi decenni. Nella parte conclusiva del suo profilo, Mecarelli propone di soffermarsi su tre composizioni che illuminano con particolare evidenza il timbro caratteristico della produzione più matura e più convincente dell’artista di origini estoni (e di fede religiosa ortodossa): Magnificat, del 1989, Miserere del 1990 e The Deer’s Cry (o “Preghiera di san Patrizio”) del 2007 (si potrebbe aggiungere anche Fratres, in una sua prima versione dal 1977, dove già si coglie l’orientamento stilistico “minimalista” che poi porterà l’autore a esaltare l’asciutta essenzialità del tintinnabuli, a imitazione del suono elementare e ostinatamente ripetitivo delle campane, come vertice di una sacralità spogliata dall’“armamentario moderno” di un virtuosismo sonoro diventato retorico e di fatto superfluo).
Qui però non interessa procedere in una analisi di tipo tecnico, per la quale chi scrive non ha nessuna specifica competenza, ma solo risottolineare la fecondità di un incontro personale e diretto con il genio estetico di un innovatore che è stato capace di liberarsi con esiti arditi dalle prigioni degli schemi ereditati. Un primo tentativo di approccio può muovere, per esempio, dalla citata The Deer’s Cry (alla lettera: il grido, o il pianto del cervo), composizione per coro misto costruita sull’antico testo irlandese di una toccante preghiera attribuita proprio a san Patrizio, l’energico vescovo evangelizzatore che, nella prima metà del quinto secolo, riuscì a impiantare la fede cristiana nelle terre dei re pagani dominatori delle isole ai margini settentrionali dell’Europa.
La predicazione del Nuovo Patto di alleanza tra il divino e l’umano fu tutt’altro che un’opera di pacifica persuasione, favorita dal consenso generalizzato. La Buona Novella entrava in urto con le tradizioni di una religiosità folklorizzata, strettamente intrecciata con il sistema di potere tribale delle popolazioni gaeliche. La casta sacerdotale dei druidi si oppose a lungo con durezza alla penetrazione dell’annuncio sostenuto da monaci ed ecclesiastici venuti da paesi stranieri, più precocemente investiti dall’espansione missionaria della Chiesa. Ma san Patrizio e i religiosi suoi collaboratori non si tirarono indietro. Secondo i racconti tramandati intorno alle epiche vicende delle origini del cristianesimo irlandese, lo scontro arrivò a investire persino il luogo sacro per eccellenza della religione druidica: la Collina di Tara, situata nella regione centro-orientale dell’isola, che era anche il luogo di residenza del “re supremo”, intorno a cui avevano messo radici i suoi apparati di potere politico-militare.
In occasione della festa di inizio primavera, i sacerdoti pagani vi accendevano falò per il sacrificio degli animali e l’esecuzione di danze sacre. San Patrizio li sfidò accendendo a sua volta un fuoco in cima alla collina e i druidi, infuriati dal gesto di sfrontata invadenza, convinsero il re a lanciare i suoi soldati contro Patrizio e i suoi compagni. Per non soccombere, inermi, costoro non ebbero altra scelta che invocare la protezione di Dio mettendosi a cantare un inno che proclamava la loro fede totale in Cristo. Miracolosamente, si trovarono trasformati in cervi, e poterono così mettersi in salvo sfuggendo alla morsa degli assalitori. La loro preghiera, la “preghiera di san Patrizio”, risuonò assumendo la forma del “lamento del cervo”, e da questa supplica orante scaturì l’invisibile corazza protettiva che li sottrasse all’offesa delle armi.
Nella versione musicale di Arvo Pärt, il sottofondo storico scivola completamente in secondo piano. L’arcaica preghiera del santo irlandese si universalizza, e la parte di testo che vi viene ripresa assume la cadenza di un totale e indiscriminato affidamento alla realtà di Cristo presente, rinnovabile da ciascuno in ogni istante del tempo che passa: oggi, come secoli fa, appassionata sorgente primaria di ogni vera esperienza religiosa vissuta in prima persona.
Scaturendo dal silenzio, che è il segno del nulla, o del limite, della morte, da cui la vita deve costantemente risorgere per introdursi nell’essere, The Deer’s Cry inizia in tono sommesso, lentissima, con la ripetizione appena sussurrata della prima e più semplice evidenza: “Christ with me”, Cristo è con me. Poi queste parole-chiave rimangono come linea melodica di sostegno, sullo sfondo della preghiera che avanza, si fa sempre più ampia, coinvolgente e decisa. Le si sovrappongono altri riconoscimenti taglienti: “Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, al di sotto di me, Cristo al di sopra…”. Nel ritmo che cresce, muta di poco il refrain sottostante: ora il coro ripete salmodiando: “Christ in me”. E ancora si aggiungono dettagli: lo sguardo si potenzia nel suo coraggio di visione, si mette a fuoco, cede del tutto davanti alla Presenza Suprema che si impone: “Cristo alla mia destra, Cristo alla sinistra, Cristo quando mi corico, quando mi siedo, quando mi alzo…”.
Alla fine, cessa ogni parola di sottofondo e il canto si fa concentrato, assolutamente lineare: “Cristo nel cuore di ogni uomo che mi pensa, nella bocca di ogni uomo che parla di me, Cristo nell’occhio che mi guarda, Cristo nell’orecchio che mi presta ascolto…”. Tutto è come riconciliato. Il cuore dell’uomo in subbuglio, come quello di san Patrizio nelle tormentate contrade dell’Irlanda di oltre un millennio e mezzo di anni fa, trova il suo alveo nel quale adagiarsi, con il quale tentare di slancio di immedesimarsi completamente. Così ogni affanno si placa, la tensione della vibrante scoperta del mistero si pacifica e il canto si reimmerge nella stessa preghiera sommessa dell’invocazione iniziale, ormai rinfrancato. Gli basta l’umile certezza di proclamare: “…Christ with me”. Tornando quasi a tacere del tutto, il calore della tenerezza filiale riannoda il senso di indistruttibile compagnia che riaffiora come nuovo dal profondo, sul filo di una limpida volontà di adesione oggettiva a un legame che può ancora diventare scudo di difesa e pilastro di appoggio per tutti.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.