“Da tempo io e Grazia ci guardiamo senza parlarci. Le passo accanto molte volte al giorno, in alcuni casi lanciando un’occhiata furtiva in direzione dei suoi volumi e sento che mi osserva con attenzione. Passandole accanto posso avvertire la sua presenza, come una cosa solida che potrei afferrare se ne avessi bisogno. Di tempo ne è passato e lei è restata lì in attesa, nel punto esatto della libreria in cui l’ho collocata anni fa; io affaccendata, distratta, lei paziente quasi sperando un giorno io mi fermassi ad ascoltarla”.
Ha l’aria di un’avventura esistenziale, più che di un arido saggio accademico il bel libro-indagine Grazia Deledda. Cuore indomabile (Ares, 2024) che Laura Vallieri ha dedicato alla scrittrice, una dei sei (non molti) Premi Nobel per la letteratura che l’Italia possa vantare, e sola donna tra loro. Lo ricevette nel 1926 “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è”.
Spesso dimenticata, a partire dalle nostre scuole, Deledda (1871-1936), nata tra i monti della Sardegna, scrisse più di 30 romanzi e quasi 400 novelle: tra i suoi capolavori Elias Portolu, Cenere e, soprattutto, Canne al vento, che le valse appunto il lauro dell’Accademia di Svezia.
Dalla lettura delle sue pagine, scrive Vallieri, “percepisco lo spessore del suo sentire e la capacità di osservare, andando sempre al fondo di tutto anche quando descrive un semplice paesaggio”. Alla scrittrice sarda “piace il ritmo vivo e zampillante di fatti e genti vissute o viventi”; anche quando “il racconto si fa violento e duro, quando la vita delle persone è falciata via dalla mietitura del dolore, spazzata dal vento furioso della colpa che inaridisce i cuori”.
Lo scopo della sua vocazione di scrittrice “è un tutt’uno con la sua persona. La sua scrittura lineare, immune da artifici ha uno scopo chiaro: ascoltare la vita e farla arrivare ai lettori ancora viva”. Mantenendo come traccia di fondo le pagine del romanzo autobiografico Cosima, Vallieri sottolinea appunto che la scrittura per Grazia Deledda, molto più che un mestiere, è una chiamata interiore “che, bambina, le fa rifiutare di tornare a casa prima che finisca il giorno e rispondere a chi le ricorda che è tardi: ‘No, non ci vado a casa. Devo osservare il tramonto del sole e come la luna illumina il monte: è il mio lavoro’”.
E tanti anni dopo, il giorno in cui le fu annunciato il Nobel, non era affatto cambiata: “Per mestiere, posso vantarmi, mai ho scritto una riga. Sono stata in ogni momento presente a me stessa”. I suoi esordi, nella chiusa isola di fine Ottocento, non furono facili: i primi lavori “mi valsero le risa, la maldicenza, la censura di tutti e specialmente delle donne”.
Cattolica, neppure fu molto amata dal mondo intellettuale cattolico, assai moralista, di inizio Novecento: “Nei romanzi, Grazia Deledda racconta quanto è potente l’amore, il trascinamento dell’anima che ne deriva, la sua energia, capace di rovesciare i destini di chi ne è coinvolto. L’amore si misura dalla sua potenza, dall’energia che scatena, non servono calcoli o strumenti sofisticati ma sensi aperti, pronti a sentire la forza della sua corrente, capace di chiamare alla vita, di risvegliare il corpo mediante la passione o la tenerezza, di portare l’anima in luoghi sconosciuti”.
Ma forse il ritratto più bello è quello che fa di lei don Primo Mazzolari, conosciuto a Cicognara, nel Mantovano, paese “presso il quale la famiglia soggiornava sempre nel mese di settembre”: Grazia “parlava pochissimo: frasi brevi, seguite da interminabili silenzi. Si diceva da qualcuno che, essendo a corto di motivi sardi, fosse venuta a razziare sul Po.
Infatti era piena di piccole curiosità: fermava per la strada certi tipi, interrogava volentieri i vecchi mugnai di acqua, si faceva portare in barca da Pinon in lunghi giri senza meta: osservava, chiedeva, fissava cose e persone con strana insistenza. C’era chi la schivava per non farsi fotografare da quei suoi due occhi. Avevano paura di finire sul libro, com’era capitato ad altri”.
Spesso Mazzolari se la vedeva capitare in casa: “Vengo a respirare un po’. Mi tiene?”. E “si buttava stancamente sopra una sedia di fronte alla Madonna del Borgognone. Erano discorsi discontinui con lunghe pause e riprese lontane: un’anima fuori del comune che sentiva il bisogno d’aprirsi all’ultimo prete di campagna”.
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