Il linguaggio poetico racconta l’esperienza oltre l’apparente, raggiunge gli abissi inesplorati del cuore, ne svela aspirazioni nascoste. Quel che sfugge all’analisi fredda, alla somma di elementi e impressioni calcolabili, può essere a volte intuito e compreso da uno sguardo libero e audace, pronto a penetrare oltre la patina superficiale delle circostanze.
Lo sguardo di Lorenza Auguadra, poetessa comasca, si è lasciato ferire e provocare da un incontro quasi casuale con persone ricoverate in “case di riposo”, apparentemente accomunate da una routine estraniata dal mondo, trascinata nel susseguirsi di giorni inerti e opachi, attraversata da una provvisorietà preclusa a nuovi sogni. Così, oltre l’impatto immediato con volti e storie diverse, i suoi occhi hanno recepito i segni di un legame insondabile e misterioso con l’esistenza, di una sete originaria e inestinguibile di senso, di attesa, di infinito.
Beatitudine dell’assenza (Libeccio Edizioni, 2022) è il titolo di una recente raccolta di poesie scaturite proprio da un’immedesimazione di Lorenza Auguadra in quel mondo che, giudicato attraverso i parametri della mentalità oggi più diffusa, sembrerebbe definito come una sorta di limbo abitato da alieni ai margini della vita reale, immersi in una desolazione improduttiva e insensata, costretti a sopportare inutili sofferenze. In tal senso il titolo sembrerebbe profilare una contraddizione insanabile, un vero controsenso. L’assenza in effetti denuncia una mancanza, senso di smarrimento e solitudine, forse struggente nostalgia, percezioni del tutto distanti dall’idea di una serena e compiuta pacificazione.
In realtà, l’“assenza” avvertita dall’autrice e riflessa nei suoi versi lascia trapelare una diversa vibrazione, suggerisce un’urgenza, un’istanza destinata a rompere il silenzio, a insinuare una presenza. Il viaggio fra le pareti della struttura per anziani presenta situazioni cariche di contraddizioni, difficili da contemplare senza inquietudine, da osservare senza la tentazione di una fuga: lo smarrimento inonda i sentimenti di fronte alle fragilità che intralciano la vita, impediscono movimenti e inceppano i pensieri. E un senso di sgomento è inevitabile di fronte a certi sguardi persi nel vuoto, sospesi al tentativo incerto di far riaffiorare ricordi frammentati e improbabili che rendano meno monotone le ore.
“Visito i malati sulla sedia a rotelle… eri un desiderio di vita alla nascita, assistiamo all’incrinatura senza spiraglio degli ultimi millimetri di sguardo”. Eppure, proprio nella prova estrema, di fronte all’apparente insensatezza dell’esistere, balena il senso misterioso di ogni istante del tempo trascorso, presente e futuro: sull’ultimo limitare della vita, l’inconsistenza e la fragilità sembrano riscoprire un’intesa con l’esistenza, il desiderio di un oltre, di una terra promessa da varcare.
Aleggia fra le righe la dimensione di una domanda, spesso inconsapevole, da sempre sottesa al vivere: “Che cos’è l’uomo perché te ne curi?”. Questo interrogativo rivolto al Cielo sembra lambire tutta la smemoratezza, tutti gli sguardi annebbiati o illuminati da un improvviso ricordo, tutte le barriere che precludono il varco a un orizzonte infinito: “È un verso triste/ la pena di una mente assenza./ L’hai negli occhi il paradiso/ la tua preghiera silenziosa è più cielo della mia poesia”. L’immedesimazione nel vissuto di chi pare “aver perso fino in fondo il servizio alla terra”, è saldamente ancorata al tempo: lo sgomento e la bellezza del travaglio umano non a caso sono stati inseriti nel ritmo dei giorni e delle stagioni, scanditi dai tempi liturgici che evocano l’avvenimento della presenza divina nella vicenda umana.
“I versi disegnano la vulnerabilità del vivere che balena come provocazione continua a cercare, attendere, implorare… – si legge nella prefazione curata da chi scrive – fino a intercettare l’eco di una rivelazione inattesa e promettente: la “beatitudine dell’assenza avvertita come il silenzio di Dio nell’alba della Resurrezione”.
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