Le teste d’Idra del terrorismo possono andare in sonno, certo non vanno in vacanza. Due grandi fattori concausano la sconfitta di qualsivoglia tipo di terrorismo: l’esaurimento della funzione storica e del sostegno collettivo che volevano intestargli i suoi promotori e un’attività calibratissima e avvolgente di politica giudiziaria e investigativa. In nome di quest’ultimo fattore, è tuttavia improprio credere che rinunciare ai propri sistemi di diritto e garanzia possa essere così efficace. Anzi, quell’arretramento rischia paradossalmente di rafforzare il terrorismo almeno nel momento in cui distribuisce un malcontento individuale e collettivo che ulteriormente facilita la propaganda e il reclutamento. 



Nelle ultime settimane siamo stati impegnati a commentare con preoccupazione come l’Europa abbia sostanzialmente fallito nel contenimento del coronavirus: se per mesi gli Stati europei erano stati virtuosi, nei numeri spesso distanti dal vero contagio di massa, in poche settimane la situazione si è ribaltata. Addirittura, le organizzazioni planetarie in materia di ricerca non governativa e salute hanno assegnato al Vecchio Continente la “maglia nera” nelle politiche di gestione.



Sia ben chiaro: di pareri improvvisati, elaborati a migliaia di chilometri di distanza, interessa poco; interessa, e di più, che un piano europeo di tutela del diritto alla salute in tempo di pandemia, se mai c’è stato, certo non ha trionfato. Eppure, nell’occhio del ciclone e nel momento meno opportuno, sono tornate lame e coltelli di un fenomeno che abbiamo dimenticato, persi nella fretta di aver sempre qualcos’altro da commentare.

Il riferimento è agli attentati terroristici compiutisi a Vienna (il 2 novembre) e all’immediatamente precedente assalto in cattedrale, a Nizza (il 29 ottobre), a sua volta verosimile seguito della stessa infame onda lunga iniziata con la decapitazione a Parigi di Samuel Paty, docente dalle posizioni non facili e non accomodanti avverso tutti i fondamentalismi e le teocrazie di ritorno. 



Difficile credere a una regia comune in senso stretto; diversi nomi, soggetti, modalità operative, fiancheggiatori e promotori degli attentati. Peggio, tuttavia, che ciò fotografi un clima, un indirizzo, un sentire comune tra i diversi gruppi miliziani. Ogni volta si scopre, con preoccupazione, che nell’Europa politica mai così disgregata albergano gruppi in grado di compiere da un momento all’altro azioni del genere. È una fonte non lieve di preoccupazione. E gli Stati nazionali rispondono tutto sommato ancora tardi e ancora alla spicciolata.

L’Italia è partita in anticipo riformando le fattispecie delittuose del terrorismo internazionale, ma è una strategia che in fondo non sa risolvere il problema alla radice. Dietro alla giusta esigenza metodologica, oltre che di pubblica sicurezza, di fronteggiare con strumenti normativi più adeguati ogni insorgenza di terrorismo fondamentalista, si è arrivati a una proliferazione di condotte illecite poco chiara, non sempre facile da applicare in senso tecnico, basata sulla semplice anticipazione della soglia del “penalmente rilevante” (la panacea per tutti i mali in questo Paese). 

Emmanuel Macron dimostra, sin qui solo nelle intenzioni, un approccio diverso. Ha parlato con emittenti arabe dopo gli attentati e ha detto senza troppe remore che il sistema costituzionale della libertà d’espressione, della laicità liberale e dell’eguaglianza giuridica dei cittadini non può essere revocato. Qualcuno ha letto nella prudente ma avvertita fermezza di queste parole un tentativo di riappacificare la Francia con le opinioni pubbliche arabe post-coloniali, ma c’è evidentemente dell’altro: la preoccupazione concreta che, di là dal singolo fenomeno terroristico, non vigilare adeguatamente sulle cause che lo nutrono sia in fondo la vera bancarotta del diritto occidentale contro le pretese teocratiche e politicamente insostenibili del terrorismo. 

L’Austria segue più da vicino il modello italiano e probabilmente già in dicembre presenterà misure in fondo assai più restrittive di quelle oggi vigenti in Italia. Il cancelliere Kurz parla di codificazione del reato di “islam politico” (sarebbe però norma feticcio, di divisione, non di inclusione, oltre che di applicazione potenzialmente indiscriminata), di sorveglianze speciali permanenti per i condannati per terrorismo, di revoca del diritto di cittadinanza. 

Ecco, Kurz dimostra un attivismo mediatico che rimanda alla muscolatura di un grande, enorme, piano repressivo, verso il quale è difficile nutrire simpatie: innalzare la tensione spesso fa più male a chi subisce la tensione, e non a chi la produce (il terrorismo). Tuttavia, questo attivismo, che vedremo se e in quale forma giungerà in aula per diventare legge, è la risposta rudimentale a un quesito e a un’inquietudine molto più profondi.

L’islam politico in Europa, se ha certo commesso errori, il più grande lo fa nel momento in cui non accetta l’abitabilità dello spazio democratico di diritto. Lo fanno i musulmani in carne e ossa quando con convinzione praticano una segregazione conscia dalle leggi dello Stato, demandando la risoluzione di tutte le loro controversie a tribunali della Sharia di dubbia composizione, non distanziandosi sempre con la stessa nettezza da episodi del genere. Questi ultimi, del resto, fanno ben più danno alle comunità islamiche che agli altri: perché alimentano il respiro dell’odio, del sospetto, dell’antico schema di astio tra una minoranza in crescita e cattiva e una maggioranza sterile e parimenti mal disposta. Non va bene.

Dobbiamo conoscerci, dobbiamo parlarci, dobbiamo intenderci e agire. Se l’Europa apparentemente al crepuscolo della sua parabola laica non può imporre all’islam politico la secolarizzazione, quest’ultimo non può nemmeno imporre ai fedeli l’ostinazione dell’odio e agli infedeli l’obbligo di accettazione di sé come fenomeno coercitivo.

Riconosciuta questa duplice cornice reciproca, allora, forse tutti, musulmani e cattolici, miscredenti e agnostici, sunniti e sciiti, potremmo trarre un profondissimo sospiro di sollievo.