La critica letteraria, nobile e in fondo un po’ triste invenzione dell’uomo, è impotente di fronte a un romanzo come Cuore nero, di Silvia Avallone (Rizzoli, 2024) che qui supera altre pur convincenti prove come Acciao e Un’amicizia, in cui un’incandescente, sanguinante vitalità irrompe da ogni parte. Eppure, il libro è intriso di letteratura e di arte: dall’epigrafe data dai versi di Pascoli e di Szymborska, a Mandel’stam, all’Ulisse dantesco, a Leopardi, a diversi episodi dei Promessi sposi, richiamati lungo la narrazione; a Caravaggio, il pittore più amato dalla protagonista, le cui opere, con i suoi tagli di luce a fendere il buio sono quasi una chiave di lettura del romanzo; ma soprattutto a Delitto e castigo di Dostoevskij, non a caso letto dalle protagoniste nel carcere minorile dove sono confinate.



È proprio Delitto e castigo, che ci appare sempre il capolavoro di Dostoevskij, superiore ai Fratelli Karamazov per l’assoluta unità di ispirazione, a costituire la cifra più autentica del romanzo di Avallone, nel suo groviglio di colpa e redenzione. Si racconta che lo scrittore russo, consegnando il manoscritto all’editore, abbia detto: “Prendetelo, c’è tutto”. Mentre Delitto e castigo si chiude con Raskol’nikov che espia la sua pena in carcere visitato da Sonja, qui le parti si invertono: Emilia (che di cognome fa Innocenti) ha finito di scontare la sua pena dopo l’assassinio e trova l’amore di Bruno, l’uomo buono e giusto, che il male lo ha subito.



La scrittrice ha rivelato che all’origine della vicenda vi è un corso di scrittura che ha tenuto in un carcere minorile maschile (anche qui un’inversione…) e senza questa esperienza non ci sarebbe stato il libro. Vicende realmente accadute e trasfigurazione letteraria si fondono abilmente, giocate nel montaggio dei diversi punti di vista. Ma emerge soprattutto il dramma di un male compiuto a cui non si trova risposta, se non alla fine quella dell’amore, dell’amicizia e soprattutto del perdono, concesso prima di tutto a sé stessi: il male è non saper perdonare, dice Emilia.

Alla fine, la protagonista comprende, come Raskol’nikov, che la verità è necessaria all’amore, perché occorre che “la verità s’incarni in una testimonianza”. Questo coraggio consente a Emilia di riprendere a vivere; questa speranza consente a Silvia Avallone di scrivere, senza censurare nulla, interrogandosi sul cuore di tenebra dell’uomo di ieri e di oggi. Leggendo la storia di Emilia, siamo portati anche noi a guardare con fiducia il desiderio di ripartire, di riparare, di ricostruire, che rappresenta il cuore di questo magnifico libro.



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