Pagine di un’eccitazione sorda quelle che Silvia Avallone mette in scena in Cuore nero (Rizzoli, 2024). Ha una penna tutt’altro che edulcorata, non fosse altro per la predilezione per quei confini che fanno da scenario ai suoi romanzi: le zone industriali, i quartieri popolari, storie pestate dalla vita. La sua scrittura è di un’invadente discrezione: fruga nei sottoscala, solleva i tappeti, spia nei vuoti una volta entrata, appoggia la luce sulle cose, contraccambiando l’accoglienza dando il diritto di parola al detestabile, indicibile.



Dopo Acciaio (2011), il nuovo capitolo del suo personale Ciclo dei vinti lo ambienta nel luogo più scellerato della città: una galera per minori, non-spazio dove sovente abita “l’adolescenza finita ancora prima di cominciare”. Fa entrare in scena Bruno: una funivia, senza la giusta manutenzione, gli uccide madre e padre. È una vittima: “Non sono per la pena di morte – ammette –, ma in alcuni casi ci vorrebbe”. Siccome è vittima, il suo dolore “non lo vede nessuno. Non siamo interessanti come i carnefici, siamo troppo vivi per essere santificati”. Quando a Sassaia incontra l’Emilia, la loro diventa la storia di una vittima che incontra il carnefice, anche se non il suo: “Sei un mostro” le grida quando, leggendo un pezzo di giornale, gli è nota la storia di quella ragazza foresta che gli fa battere il cuore. Lei, di risposta: “Non sono solo questo”. Capita loro d’innamorarsi, senza conoscere appieno le loro storie. Resta la domanda amica a chi frequenta la giustizia: “Bruno sapeva. La versione dei giornali, degli altri, dei giusti. Però c’era anche la sua versione (di Emilia). E l’amore esigeva che questa versione venisse espressa, l’indicibile venisse detto”. Non è una pura curiosità, è che “non puoi amare qualcuno senza conoscere tutta la sua storia, specialmente il nero”. Soprattutto il nero.



Cuore nero è la contaminazione di due opposti: il silenzio che trivella le orecchie di Sassaia e il caos tetro della galera. L’incontro di due solitudini che si accarezzano: “Sentivo la mia solitudine e la sua solitudine che si aggrappavano a vicenda” racconta Bruno. È l’avventura di un carcere che osa scommettere sull’umano delinquenziale: “Non potete pretendere che smettiamo di sbagliare se conosciamo soltanto parole sbagliate, esempi sbagliati, sbarre”.

Il romanzo è la vittoria della civiltà sulla barbarie, la dimostrazione vivente, non letteraria, di cosa riesca a fare l’amore quando incontra la violenza: cieca, bruta, assassina. Perché dopo un omicidio (come quello firmato da Emilia) “non è vero che si va avanti. Dopo ci sono le conseguenze”. E se il passato non lo potrai cambiare, potrai fare in modo che non vada a compromettere il futuro. Resta il rosso del sangue, la colpa, la memoria. La poca voglia della gente di indagare il male per quell’ancestrale paura di venirne contagiati. “Tanto non mi capiterà mai una cosa del genere!”. Sempre così: la disgrazia altrui consolida la propria felicità. Si vive troppo sulla lunghezza d’onda del “non ho niente a che vedere”. Poi, bum!



Attorno a Emilia e Bruno ruota un mondo d’anime belle. Di amicizie nate in ventre alla galera: “(Qui dentro) Siamo tutte stronze, troie e regine allo stesso modo”. Anche presenze di salvezza, l’una per l’altra semplicemente trovandosi, sfidandosi, amandosi: “Baby, hai un fuoco dentro: non sprecarti”.

Rincuora che un romanzo si spenda per ricordare queste “vespe muratrici” che si insinuano nel male per svuotarlo. Due brillano. Riccardo, papà dell’assassina, che rimane nel loro paese. A svangarsi la vera galera, quella che spetta ai parenti dei carnefici: “La cosa migliore che puoi fare, non solo per te stessa, ma anche per lei, è non buttare via questo dopo. Ricostruirlo” è l’invito che fa a Emilia. L’altra è la figura di chi si ostina a credere che l’uomo è molto più di un errore che gli può capitare di compiere. È l’educatore del carcere: ficca “gli aghi nel punto più abissale di quel groviglio”. All’inizio lo detesti all’inverosimile: “Perché ci vuole un progetto? Non può essere un cazzo di giorno per giorno e vediamo come va? Poi sai già come va. A puttane”. Alla fine un grazie, “per avermi ricordato che, persino in me, c’è del buono”. Grandi amicizie nascono sempre in galera.

Leggere Cuore nero – rubo le parole a Bruno quando parla degli articoli di giornale – è “come avere davanti qualcuno con un bisturi che ti apre il petto con lentezza esasperante e ti opera a cuore aperto senza anestesia”. Non stupisce che Silvia Avallone, per scriverlo, abbia dovuto ficcarci piedi e cuore in questa zona cupa e fulgida. Capire il male, lei lo sa bene, non significa giustificarlo: è ricordare che nessuno è solo un mostro. Che “la libertà è un casino”. E se ami una persona “non puoi prescindere da quello che è stata. Non puoi suddividerla in parti, scegliere quelle che ti fanno comodo. Devi accettarla intera”. Romanzo che ti inghiotte, ti mastica lentamente, ti sputa fuori. Il finale è per fegati allenati.

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